GIAMPAOLO ASCOLESE: guarda i miei due ritmi afro-latin

Il batterista e vibrafonista Giampaolo Ascolese racconta qualcosa della sua carriera e degli strumenti utilizzati. Gli è stata fatta anche una domanda extra a proposito della musica latina e al termine della risposta questo jazzista di vaglia mostra in video il suo scarno ma efficacissimo corredo di ritmi latin, con i quali però è sempre riuscito a ‘cavarsela’ egregiamente in qualsiasi contesto come lui stesso sottolinea nella chiacchierata.
COS’ERA PER TE LA MUSICA LATINA QUANDO HAI INIZIATO A SUONARE E CHE CONOSCENZE HAI DI QUEL MONDO?
Ammetto di sapere molto poco di quell’area, a parte i ritmi universali come samba, bossa nova, bayon, cha-cha-cha, calypso, tango, e habanera: insomma, tutti ritmi provenienti da balli in voga negli anni ’50 e ’60 e che adesso hanno una infinità di ‘sotto-ritmi’ con altri nomi e con solo alcune piccole variazioni di ‘chiave’. Musica latina per me da ragazzo erano i mambo dei grandi successi degli anni Cinquanta, le orchestre di Perez Prado, di Tito Puente: da lì ho incominciato a innamorarmi un po’ di quei suoni, come mi sono innamorato della musica brasiliana suonandola…..
da L’articolo completo è pubblicato su Drumset Mag n. 18, Novembre 2013, pag. 34-37
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GIAMPAOLO ASCOLESE: 40 anni di ritmo nel jazz con i Beatles nel cuore
di Gian Franco Grilli
Batterista, percussionista, compositore, insegnante di Conservatorio, cinquantasettenne, nativo di Baronissi (Sa) e “naturalizzato romano”, Giampaolo Ascolese vanta nel panorama jazzistico italiano una carriera lunga e variegata come pochi altri della sua generazione. Tuttavia ai più giovani ricordiamo che si è innamorato del jazz per “colpa” dei Beatles, ha suonato con circa 60 jazzisti americani, è stato in tournée con Chet Baker, fa parte del trio di Mike Melillo, ha accompagnato per vent’anni Nicola Arigliano, ha inciso 76 dischi, come sideman e leader.
Raccontaci il tuo inizio nel mondo della musica?
A sette anni cominciai a imbracciare la chitarra di mio fratello Michele (di due anni maggiore) nei momenti che non la suonava. Ma subito Michele mi disse che in casa il chitarrista c’era già, cioè lui, e quindi avrei dovuto imparare un altro strumento, ad esempio la batteria e così feci; poi entrai nel suo gruppo che suonava rock, pop psichedelico, progressive, Cream, King Crimson, Beatles, Genesis, Jethro Tull e dovevamo suonare i loro dischi in modo identico. Non era facile, ma ci riuscivamo.
Vuoi dire che la fedeltà all’originale era il metro con cui il pubblico e anche i musicisti di band concorrenti giudicavano i vostri risultati?
Non potevi riassumere meglio il concetto, infatti le cose andavano proprio così e ciò valeva per tutti: eri considerato bravo se rifacevi la tale canzone uguale al gruppo inglese o americano che l’aveva incisa.
Hai avuto un insegnante di batteria oppure tutto con il fai da te?
Il mio primo e unico insegnante di batteria, anzi di lettura ritmica, perché poi insegnanti di batteria (mio malgrado, perché ne avrei voluti avere) non ne ho mai avuti, è stato Pupo de Luca. Mio dirimpettaio, splendido batterista jazz degli anni ’60, Pupo in seguito è stato anche ottimo attore (i non più giovanissimi forse ricorderanno il cameriere Fritz nella fortunatissima serie televisiva “Nero Wolfe” con Tino Buazzelli e Paolo Ferrari ).
Nasci con il rock ma prestissimo ti sei avvicinato al jazz. Come mai?
Ti sembrerà strano ma la “colpa” fu dei Beatles. Ho sempre adorato e continuo ad amare i baronetti di Liverpool tanto che ho montato un progetto multimediale, Let It Be…atles suonato in chiave jazzistica ma strizzando l’occhio al etno-pop-sinfonico. Sono 18 canzoni in cui le musiche interpretate dal mio gruppo Isoritmo vengono intrecciate a immagini della pittrice Marie Reine Levrat che riproducono quel contesto storico -culturale e questo mix di linguaggi piace molto ai giovani e credo serva anche ad avvicinarli a quella stagione, a quelle musiche strepitose, e direi alla storia. E ora ti parlo della “colpa”: i Beatles avevano la Apple Records e un giorno a casa di un amico guardo il logo della mela tagliata di colore chiaro stampigliato sul retro della copertina di un album, comincio ad ascoltarlo e dopo un po’, infastidito, dico al mio amico: “ma che musica di m… strana è questa che suonano i Beatles?”. Era Under The Jasmin Tree del Modern Jazz Quartet con quel grande vibrafonista di Jackson di cui diventai poi un suo grande ammiratore. Su due piedi riempii di improperi il mio amico ma di lì a poco quel sound mi catturò, mi segnò per sempre. Così sono impazzito per quella musica strana che per un disguido era finita sul giradischi.
La prima formazione con la quale hai suonato jazz?
Nel 1969, all’età di 14 anni, quando andai a vivere a Casal Palocco e lì creammo il gruppo Spirale, che esiste ancora oggi e l’anno scorso abbiamo inciso Live Inside. Comunque negli anni Settanta abbiamo fatto il primo disco, era progressive con jazz, un po’ sull’onda di quello che i jazzisti americani importanti avevano cominciato a fare per andare a soldi, cioè suonare jazz rockeggiante per addomesticare i giovani: parlo di Miles Davis, Wayne Shorter, Herbie Hancock. E infatti anche noi che suonavamo rock sentendo quei maestri ci siamo avvicinati al jazz. Successivamente, anni dopo, sono ripartito da zero per studiarlo meglio, poiché l’approccio iniziale con il jazz era partito dalla fine di questo linguaggio, nel momento in cui alcuni ne hanno decretato un certo apice, penso a Herbie Hancock con Watermelon man oppure a Wayne Shorter con Adam’s Apple, che secondo me erano al termine di un loro discorso musicale. Loro avevano già fatto tutto ma io non sapevo nulla di quello che era avvenuto prima e quindi sono andato a ricercare la tradizione, il bebop, gli standard.
Ma questa ripartenza com’è avvenuta, da autodidatta?
Nel 1980 mi recai negli Stati Uniti per un corso di specializzazione alla “Berklee School of Music” di Boston, dove Joe Hunt, mio insegnante di batteria mi attendeva invano, senza che io andassi a lezione perché ero impegnatissimo con tutte le lezioni di teoria che dovevo fare. Peccato.. questa è una delle pochissime cose delle quali mi pento e chiedo scusa a Joe, splendido batterista, di non essermi mai scusato con lui, anzi, adesso credo che gli manderò un messaggio (in questo Internet è impagabile!!) .Una volta rientrato in Italia mi sono diplomato in Strumenti a Percussione al Conservatorio di musica “A. Casella” dell’Aquila, ma continuavo a suonare jazz facendo esperienze con americani; poi mi sono preso un diploma in Composizione ed Orchestrazione Jazz, un’altra specializzazione….insomma ho preso un diploma ogni dieci anni, ultimo l’ho conseguito a cinquantatre anni. Adesso sono docente e questo mi è stato utile per l’insegnamento.
Hai raggiunto più o meno tutti gli obiettivi importanti che si prefiggono i grandi professionisti della musica. Sei soddisfatto?
Certamente, e adesso sono pronto per la pensione, perché verso dei contributi dal 1975 quindi a sessant’anni potrei diventare un pensionato, da 300 euro al mese, ma li farei bastare. Tuttavia concordo con te: un musicista fatica ad andare in pensione e io spero di avere altre opportunità di suonare.
Qualcosa che vorresti realizzare nei prossimi anni e a cui tieni molto?
Imparare a suonare il vibrafono, non dico bene perché ci vorrebbero forse altre due vite. ma in maniera decente. Lo so suonare come esecutore e non come improvvisatore e quindi mi piacerebbe davvero imparare a improvvisare un po’ meglio..
Ma torniamo alla batteria, strumento che ti ha consacrato come uno dei nomi più importanti nel panorama jazzistico italiano degli ultimi quarant’anni. A livello italiano quali sono i batteristi che apprezzi di più?
In Italia ce ne sono tantissimi, ma per parlare di quelli della mia età cito Roberto Gatto, Fabrizio Sferra, Ettore Fioravanti e potrei continuare. Tra i più giovani ve ne sono dei bravissimi, alcuni sono davvero impressionanti e altri, molti, sono ancora sconosciuti ma presto ne sentiremo parlare, e tu forse con il tuo lavoro ne conosci già qualcuno.
Vuoi dire giovani in possesso di una tecnica strabiliante, che invece fino a qualche decennio era appannaggio di pochi?
Assolutamente sì. Comunque nonostante tutte le conquiste dobbiamo ricordarci che la batteria è uno strumento americano e probabilmente molti statunitensi potranno darci lezione ancora per un po’. La batteria è nata là e si vede.
Già che siamo in America, facciamo un salto nei Caraibi, tra il batterismo latin. Cosa ti viene in mente?
Horacio “El Negro” Hernandez, l’unico che conosco e che ricordo quando visse qui a Roma: non se lo filava nessuno, quasi da far la fame e invece è un musicista fenomenale. Non riesco a occuparmi di quei ritmi, sono troppo distanti da me e spendo il mio tempo a imparare a suonare il vibrafono. Tuttavia In Italia un nome che merita una segnalazione nel latin è Claudio Mastracci. In quarant’anni di carriera con la batteria ho suonato un unico ritmo di samba, un unico ritmo di bossa-Nova un unico tipo di ritmo afro-cubano ( che magari non si chiama nemmeno così quello che suono io) un tipo di ritmo latin (questi due ve li propongo in video), sono sempre andati bene a tutti ma sono una cosa diversi dagli originali. Certo che mi piacerebbe passare un anno a studiare seriamente quelle poliritmie, forse lo farò, tanto sono giovane (ride), non credi? Ma in definitiva debbo ammettere che mi sono piaciute sempre le percussioni classiche e meno quelle etniche, preferisco la marimba alle tumbadoras e il vibrafono al cajón, anche se mi rendo conto che oggi le percussioni etniche hanno uno spazio importante. Ma bisogna fare delle scelte in base a risorse e tempi.
Parlando di Horacio El Negro penso all’indipendenza degli arti: che percorso suggerisci ai tuoi allievi per raggiungerla?
Ci sono dei libri importanti, e uno per tutti per l’indipendenza jazzistica è il Jim Chapin, volume 1: ti fa fare con ogni arto una cosa diversa, ma ovviamente è riferito a una certa proposizione della batteria, con la destra tieni lo swing, la cassa – se vuoi – la tieni in quattro oppure fai interazioni con la sinistra, mentre se guardiamo ai batteristi afrocubani ogni arto va per conto suo. Per me sono inarrivabili.
Ma cos’era per te la musica latina quando hai iniziato a suonare e che conoscenze hai di quel mondo?
Ammetto di sapere molto poco di quell’area, a parte i ritmi universali come samba, bossa nova, bayon, cha-cha-cha, calypso, tango, e habanera, insomma tutti ritmi provenienti da balli in voga negli anni ’50 e ’60 e che adesso hanno una infinità di “sotto-ritmi” con altri nomi e con solo alcune piccole variazioni di “chiave”. Musica latina per me da ragazzo erano i grandi successi di mambo degli anni Cinquanta, le orchestre di Perez Prado, di Tito Puente e da lì ho incominciato a innamorarmi un po’ di quei suoni, come mi sono innamorato della musica brasiliana suonandola. Per la verità ho praticato più la brasiliana che la musica latina in generale poiché in Italia era più facile, il Brasile era più rappresentato. Per esempio a Roma vivevano delle comunità di brasiliani e vi era un locale a Trastevere che si chiamava Manuia, un punto di riferimento della musica brasiliana e lì facevano jam session e ci suonava anche mio fratello Michele, chitarrista. Così anch’io lì ho fatto le mie esperienze con bossa nova, samba jazz, tropicalismo, musica popolare brasiliana. In quel periodo ho suonato un paio d’anni con l’orchestra Serpiente Latina con un repertorio salsero.
Sei stato in diversi paesi dell’America Latina: che tipo di esperienze e con quali musicisti sudamericani hai suonato?
Ho lavorato in Brasile, Argentina, Costa Rica, Messico e si è trattato quasi sempre di progetti con la regione Emilia Romagna assieme al maestro Zagnoni, facevamo le suite del compositore francese Claude Bolling, quindi musica classica declinata a jazz. In Brasile un’altra volta sono andato per conto mio facendo un seminario all’Università della Musica di Recife e portando due progetti di mia produzione: il primo è dedicato ai Beatles e il secondo a Santa Isabel di Recife è dedicato alla pittura. Ho incontrato molti musicisti locali e francamente non sapevano suonare tanto le musiche internazionali, ma sulla loro musica sono sbalordivi, ti distruggono. Due brasiliani con i quali ho suonato sono il chitarrista Irio de Paula e il percussionista Mandrake.
Ma ti sei cimentato anche con il tango argentino, stilema in cui la batteria non sembra avere un ruolo significativo.
Beh, Storie di Tango è uno spettacolo di musica e recitazione con un grande del teatro, Arnoldo Foà sostenuto dal quartetto di Rino Vernizzi, primo fagotto dell’Orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia di Roma. In quel contesto eseguivo delle parti scritte, si interpretava Piazzolla con una formazione da camera, suonavo batteria e percussioni ma sempre in chiave classica. Tango e batteria? Sì hai ragione, e l’unico, a mia conoscenza, che sia riuscito a suonare la batteria su Libertango chiamato da Astor Piazzolla è stato Tullio De Piscopo.
Scorrendo la tua biografia (www.giampaoloascolese.com) spuntano tantissimi dischi incisi e figure leggendarie del jazz con i quali hai condiviso il palcoscenico. Chi delle decine di jazzisti americani con cui hai suonato ti ha impressionato di più?
Chet Baker, e per varie ragioni: non ti diceva mai niente ma ti faceva capire subito che tipo di atmosfera voleva raggiungere; con Chet ho fatto due tournée mentre con altri grandi nomi, da Roland Hanna a Curtis Fuller, da Art Tatum a Johnny Griffin, ho suonato una o due serate massimo. Quindi Baker posso dire di averlo conosciuto anche dal lato umano, una persona splendida, soprattutto con quelli che non avevano il suo vizio. L’ho accompagnato un po’ ovunque, nelle Marche con il trio di Mike Melillo e l’Orchestra Filarmonica Marchigiana.
Concertista, produttore ma anche docente.
Sì, sono titolare della seconda Cattedra di Musica Jazz al Conservatorio “G.B.Martini” di Bologna, eppoi insegno batteria a Trento, Frosinone e Latina. Quindi sono sempre in giro con il treno e quasi i controllori delle FS non mi chiedono più il biglietto come dire “lasciamolo dormire…quello lo conosciamo”.
Grilli G.F.
NB- Il video è disponibile su youtube, Latin. Giampaolo Ascolese, i suoi 2 ritmi Afro-Latin – di Gianfry Grilli (MiCaribe)
il materiale di questo articolo risale al 2012, pertanto va aggiornata la situazione dell’artista.