CUBA, Amo esta Isla…soy del Caribe

L’audiovisivo “Cuba, Amo Esta Isla” (online in youtube) è un omaggio al popolo e alla cultura cubana e non è una adesione al sistema politico del Paese. Un potpourri di immagini e suoni dell’Isla Grande di Gianfry Grilli

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AFRICA IN ARGENTINA

28. gennaio 2014 – 15:02No Comment
AFRICA IN ARGENTINA

Lo scrittore Francesco Cecchini ci ha trasmesso un interessante articolo sul cortometraggio  “Los Argentinos tambien descendemos de esos barcos” che racconta una storia poco conosciuta nel mondo: le radici africane dell’Argentina e le lotte del movimento afroargentino per il riconoscimento di questa identità culturale.  Di seguito anche l’intervista di Cecchini all’autrice del documentario, la giovane antropologa argentina Milena Annecchiarico.


Los Argentinos tambien descendemos de esos barcos.

Un documentario di Milena Annecchiarico

di Francesco Cecchini

L’ immagine mi ricorda  un 2 febbraio trascorso a Salvador de Bahia dove ho potuto vedere la festa in onore della dea dell’acqua. In questo giorno  la dea  riceve doni dai sui figli pescatori.  Innanzitutto fiori, grandi  mazzi di fiori,che portati al largo vengono gettati in mare e raggiungono il fondo dove Yemanjá vive. Il mare fiorisce di vele.  In spiaggia vengono fatti alla dea altri doni, tra cui barchette di carta cartone con candele, che nuotano nelle onde. In città è una grande festa, c’ è musica, si balla, si beve birra.                                            Ho letto che la stessa cerimonia avviene a Santiago di Cuba, ad Haiti, nel golfo del Benin, ma qui siamo a Buenos Aires, Argentina.

L’ America Latina, dal Messico alla Terra del Fuoco, è un mosaico di contraddizioni , di lotte e di processi di cambio politico e sociale. Dai popoli originari che reclamano rispetto, diritti ed autonomia, alla distruzione dl territorio, al processo di pace in Colombia, alla contrapposizione dei molti regimi progressisti alle politiche d’ ingerenza degli Stati Uniti. In questo ambito di un continente in movimento, vi è anche la presenza nera che oltre a radici  storiche ha un volto attuale. Una nuova migrazione che dall’Africa arriva ai paesi del continente latino, Argentina compresa.

Il bel documentario di Milena Annecchiarico racconta l’ Africa in Argentina, con immagini ed interviste. È uscito a Buenos Aires a settembre dell’anno scorso. Ha partecipato a diversi incontri e festival in Argentina ed in Italia. Nel novembre del 2013 a Varese ha vinto il Premio del Pubblico della rassegna “ Documentamy – Un posto nel mondo”.

In  Argentina ed anche in paesi che hanno contribuito a costruire questo paese come l’Italia e la Spagna si conosce poco di questa vicenda che inizia con l’arrivo di schiavi africani nel lontano 1500, attraversa i secoli ed arriva ai giorni nostri  Gli afro argentini sono presenti, ma esclusi dall’identità nazionale che da  sempre, anche grazie al genocidio dei popoli originari, si considera bianca ed europea. Tra l’altro l’ Argentina deve all’Africa uno dei capisaldi della sua cultura popolare, il tango.                                                                                                Il documentario di Milena Annecchiarico racconta come molti afroargentini, artisti, intellettuali, militanti del movimento afro argentino lottano contro la discriminazione razzista, per l’integrazione  e per il riconoscimento della propria identità culturale.

Lascio la parola a Milena Annecchiarico.

Il tuo ottimo documentario, Los Argentinos tambien descendemos de esos barcos ha il merito di raccontare una storia poco conosciuta, per lo meno in Italia: le radici anche africane dell’ Argentina. Dato che non sei una documentarista pura, ma usi questo strumento, il documentario, per informare su una tematica specifica, ci puoi dire della tua attività in genere, del tuo impegno professionale e culturale?

In effetti questo documentario è il primo che realizzo, ed è stata una bella sfida. Non ho studiato cinema, ma da diversi anni mi interesso di cinema etnografico e antropologia visiva. Ho fatto dei corsi di realizzazione audiovisiva e di documentario sociale che mi hanno permesso quantomeno di poter organizzare le idee e le tecniche per realizzare questo progetto. La mia formazione universitaria, svolta in Italia, è mista: geografia umana e antropologia culturale. Attualmente sono dottoranda in antropologia presso l’Università di Buenos Aires con un progetto su politiche culturali e comunità afrodiscendenti in Argentina e a Cuba. A Cuba ho svolto le due tesi di laurea, triennale e magistrale, su temi legati alla costruzione dell’identità cubana e il legame culturale di Cuba con l’Africa. È proprio a Cuba che mi appassiono di Afrolatinoamerica: studiare le complesse articolazioni storiche, cultuali, politiche e le sfide attuali che attraversano le diverse esperienze delle popolazioni afrodiscendenti nel continente è un orizzonte che inseguo. Quindi eccomi in Argentina: il mio paese natale e paese dei miei genitori, tante volte visitato e profondamente amato. Giunti qui, pare che la mappa geo-culturale afrolatinoamericana si interrompa: i discorsi sulla non esistenza dei neri argentini e degli afrodiscendenti è dominante. Ma questo non è che un mito…che il documentario vuole contribuire a decostruire. Oltre al dottorato, che è la mia occupazione principale, e il recente interesse alla realizzazione cinematografica, scrivo su riviste specializzate e tengo sporadiche lezioni in università. Collaboro con l’Istituto de Ciencias Antropológicas dell’Università di Buenos Aires. Faccio parte dell’Associazione Culturale Antropocosmos, con sede a Torino.

Come è andata la diffusione del documentario in Italia, Argentina e Sud America in genere?

Quali sono state le reazioni degli spettatori che sono differenti? Di quello italiano, innanzitutto,  che vive oggi una presenza africana importante.

Il tema in Europa non interessa solo l’ Italia, ma anche la Spagna? Il documentario e stato fatto vedere in questo paese?

Sono molto contenta di come sia stato accolto il documentario, che sta circolando sia sulla rete che in scuole e altri spazi, innanzitutto qui a Buenos Aires. Ho avuto l’opportunità di presentarlo nell’università di Buenos Aires, nel museo etnografico della città e in due cicli di realizzatori audiovisivi indipendenti. Ha avuto anche una piccola ma buona diffusione su radio e giornali nazionali. In Italia, approfittando di un mio recente viaggio, è stato presentato in diversi luoghi: in un circolo culturale di Varese, all’Università di Milano Bicocca, all’Istituto Cervantes di Milano e in un centro culturale di Torino. Ha partecipato nel Festival di Cortometraggi di Varese “Documentamy2013”, dove ha ottenuto un premio. Prima dell’uscita ufficiale, ho portato l’ anteprima in Messico e a Cuba, in due convegni di antropologia. Come dici bene, il pubblico che ho incontrato fino ad ora è stato molto eterogeneo: antropologi e documentaristi di diversi paesi, persone di vario genere interessate a questo argomento. Le domande e le riflessioni scaturite nei vari incontri sono state diverse e ricchissime. Ogni volta è stata per me importante per misurarmi con pubblici sempre nuovi e capire come affrontare al meglio questo tema, che è inesauribile ed eccede le pretese del documentario. Che non sia un argomento molto conosciuto in Italia è evidente, ma neppure lo è in altri paesi. In Argentina solo in questi ultimi anni c’è più interesse e predisposizione a conoscere questi aspetti della società e della cultura argentina, che rimangono ancora marginali e sconosciuti ai più. Il minimo comune denominatore che ho osservato nei diversi incontri, se vogliamo trovarlo, è che il soggetto del documentario desta sorpresa, una sorpresa dalle sfumature diverse, dalle ragioni e toni diversi, ma con un sussulto comune di fondo: ma come, in Argentina ci sono gli afrodiscendenti! Un altro elemento comune nel pubblico che ho incontrato fino ad ora, è che interessa saperne di più. Un “di più” che apre a nuove domande che vanno nella direzione, spero giusta, di riconoscere queste alte discendenze argentine e combattere il razzismo che è assolutamente attuale. Questo tema, il razzismo, è stato anche un interessantissimo argomento di confronto per parlare della situazione degli africani in Italia, un altro paese che riflette poco sui propri “miti” nazionali e sul razzismo nelle proprie pratiche sociali. Per esempio, la storia coloniale italiana è quasi un tabù, non se ne parla, io che ho frequentato tutte le scuole e l’università in Italia, non l’ho mai studiata. Non ci misuriamo veramente con il nostro passato per capire i nostri limiti attuali. Sarebbe ora di riaprire armadi chiusi troppo frettolosamente che sono pieni di memorie, documenti e spunti per pensare nuove possibilità culturali e politiche per affrontare il presente. Su questa linea, abbiamo organizzato una tavola rotonda assieme all’Associazione Antropocosmos a Torino per parlare di Afrodiscendenze e razzismi tra Africa, Americhe ed Europa, invitando al dibattito un dirigente ivoriano dei migranti in Italia e una studiosa italo-eritrea dei rapporti coloniali tra l’Italia e l’Africa. L’intento era proprio far dialogare diverse esperienze di rivendicazioni dei diritti dei migranti, delle tragedie coloniali e di quelle attuali nel nostro territorio, mettendo in contesto il razzismo come ideologia dominante e le responsabilità degli Stati nella sua perpetuazione. In Spagna non è stato per il momento presentato, ma sarò più che felice qualora questo possa accadere, un paese che ha da dire molte cose riguardo la sua relazione coloniale con l’Africa e con le Americhe e le conseguenze attuali di quel commercio triangolare.

Hai scritto un saggio sulla discriminazione razziale a Cuba, paese che conosci  e frequenti. Come è stato accolto?  Quali sono le politiche di Cuba per superare questa contraddizione?

L’articolo a modo di saggio breve sulla questione razziale a Cuba è uscito sul sito web dell’Associazione Antropocosmos, di cui faccio parte assieme ad ex compagne di studi torinesi. L’occasione per scriverlo è stato il censimento della popolazione cubana del 2012, in cui è inclusa la variabile di colore di pelle, e una mia permanenza sull’isola per ricerca. Avendo a che fare con studi africanisti e comunità afrodiscendenti a Cuba, la questione razziale è tutt’altro che marginale e scontata. Effettivamente, la discriminazione razziale è un problema vigente e lo troviamo nella vita quotidiana, nelle relazioni sociali e familiari; anche il fatto di registrare il colore della pelle come tratto identitario è problematico. È allo stesso tempo un argomento che soltanto in questi ultimi anni si sta aprendo al dibattito a livello istituzionale e intellettuale. Si può vedere a questo proposito, per rimanere nell’ambito cinematografico, il documentario cubano Raza di Eric Corvalan.

La permanenza delle disuguaglianze su basi razziali è forse una contraddizione in una sistema socialista che uguaglia ed elimina le barriere di classe, con i risultati esemplari a livello di educazione e salute che conosciamo internazionalmente. Qui il nodo della questione: la discriminazione razziale è frutto di un’eredità coloniale che non ha abbandonato l’isola con la Rivoluzione cubana, come molti studiosi locali hanno fin ora enfaticamente celebrato. L’esperienza socialista cubana ci insegna suo malgrado che per affrontare e combattere il razzismo non basta solamente affrontare la questione di classe. La “razza” in quanto esperienza storica latinoamericana, convive con la classe (e con il genere), ma non coincide sempre. Va operato un cambio profondo dei modelli culturali, delle performance sociali (ad esempio il linguaggio), dei miti e dei tabù collettivi. Va capito il razzismo come ideologia dominante nel mondo attuale, in cui hanno avuto un peso determinante i rapporti coloniali e capitalisti. E questo vale anche in Italia, anche se ovviamente è un contesto diverso. Un medico africano che lavora negli ospedali italiani è ancora oggi considerato “fuori posto” nel sistema sanitario italiano; lo stesso accade per ministri o politici neri, tema di grande attualità direi che non si sta affrontando seriamente. O ancora, in molte case accomodate italiane e in Fiction televisive di successo, i soggetti neri occupano posti di servitù e di subalternità rispetto i bianchi, solo per fare alcuni esempi tra molti. Il lato peggiore del razzismo è quando si naturalizza e si banalizza, quando non si vede.

Parlaci del libro che hai curato, Afropoliticas en America del Sur y el Caribe? Questo tuo lavoro ha un valore generale importante, pensi che verrà tradotto in Italia?

Afropolíticas en América del Sur y el Caribe è una pubblicazione nata in seguito a un Foro che si è tenuto nel 2011 durante il Congresso Argentino di Antropologia Sociale dell’Università di Buenos Aires. In Argentina in questi ultimi anni, stanno aumentando gli studi sulla questione africana e afroamericana, come anche ci sono numerosi attivisti di organizzazioni afro, ma nelle università le occasioni di scambio e di riflessione sono molto scarse. Assieme ad Alicia Martín, docente di antropologia presso l’università di Buenos Aires, abbiamo dunque deciso di invitare al Foro attivisti e ricercatori sia argentini, che africani residenti in Argentina; studiosi da Cuba, dalla Colombia, dal Venezuela e dal Brasile. Questa partecipazione multinazionale ha garantito un momento di incontro e di scambio per parlare di “Afropolitiche” nel continente. I temi principali sono stati: diversità di esperienze e di rivendicazioni nere nel continente; relazione tra potere e politiche nazionali riguardo gli afrodiscendenti; come si posizionano le comunità di afrodiscendenti rispetto il sapere e il potere egemonico e quali rivendicazioni portano avanti. La partecipazione è stata molto buona, sia di studenti che di ricercatori e attivisti.

Dopo questo incontro aperto, abbiamo organizzato i diversi contributi in una pubblicazione con l’obiettivo di condividere quanto detto non solo tra gli addetti ai lavori, ma destinato ad un pubblico più ampio. Qualche copia è arrivata anche in Italia. Al momento non è prevista una traduzione in Italia, ma sarebbe secondo me molto interessante portare queste esperienze ad un pubblico italiano, non solo in contesti accademici, ma a quanti si interessino di Latino America e afrodiscendenti. La traduzione è sicuramente un progetto in cantiere.

Che programmi hai in futuro?

Oltre a concludere la ricerca di Dottorato, che mi vedrà impegnata ancora per un po’ di tempo, spero di iniziare presto un nuovo progetto di documentario per continuare a confrontarmi con la produzione culturale, non solo con il sapere teorico. Per dialogare con le persone comuni, nelle scuole, nei centri culturali, nei cinema, non solo con accademici nelle università. Sicuramente spero di portare ancora in altri luoghi e altre latitudini il cortometraggio “Los argentinos también descendemos de esos barcos”, che possa servire qui in Argentina in primis ma anche altrove per far riflettere su noi stessi, togliere pregiudizi e false certezze. Un obiettivo importante del mio lavoro tra ricerca, scrittura e produzione audiovisiva, è anche quello di invitare i ricercatori e gli antropologi in particolare a produrre contenuti fruibili da tutti, non solo studi che circolano sempre troppo poco e in ambiti circoscritti. La forza delle scienze sociali a mio avviso deve risiedere nell’impatto che possono generare nella società e rendere praticabile il cambio che le nostre analisi vogliono ispirare e di cui la società ha bisogno. Ho trovato nel mezzo audiovisivo un prezioso alleato in questo intento, ma ci sono molti altri modi da esplorare.

Chiudo con una domanda politica? In Italia stiamo discutendo l’abolizione del reato di clandestinità. Alcuni siamo contro non solo al reato, ma al concetto stesso di clandestinità. Nessun esser umano dovrebbe essere straniero o clandestino in nessun luogo della terra. Cosa ne pensi?

Potrei rispondere riprendendo le cose dette sopra sull’ideologia del razzismo e i modelli culturali soggiacenti. Mi sembra che il dibattito politico su questo tema come anche un’analisi critica del concetto di clandestinità, possano essere inseriti in questo piano di analisi. Se non modifichiamo le nostre pratiche sociali, linguistiche, culturali che banalizzano e naturalizzano la discriminazione e l’assoggettamento dell’altro, non possiamo a mio avviso pretendere un reale cambio di mentalità né di politiche. Ogni epoca storica ha assegnato al diverso, all’altro, nomi ed etichette che rappresentano una particolare concezione dell’alterità in una determinata situazione di potere. Durante il colonialismo per esempio, l’altro era l’indio, il negro, il moro. Tutti termini dispregiativi. Oggi abbiamo ereditato questi termini, usati ancora molto largamente e in diverse lingue e ne abbiamo creati nuovi. Clandestino per esempio, un termine che interpreta e naturalizza la paura, l’odio, l’ignoranza delle nostre società europee di fronte ai migranti. Ricordo qualche anno fa quando i mass media utilizzavano senza problemi questo termine: “ nuovo sbarco di clandestini”… “ sale il numero di clandestini nel paese”… e sono sicura che tutti avessimo esattamente in mente che si stava parlando di persone. Poi pare che ci sia stata una svolta nel linguaggio mediatico quando il Papa, una figura altamente importante nel condizionare l’opinione pubblica, si è recato a Lampedusa dopo l’ennesima tragedia e ha parlato pubblicamente di persone, senza usare mai la parola clandestini. Da allora credo di non aver sentito più usare il termine clandestino nei mass media come lo si usava prima, banalmente e naturalmente. Ma ci voleva il Papa per questo?! Mi chiedo invece se sta davvero cambiando la percezione dominante che abbiamo dell’altro e del migrante in particolare. Dai recenti sviluppi delle votazioni in Senato sull’abolizione del reato di clandestinità, direi di no: il clandestino resta tale e viene espulso. Il potere del linguaggio e dello Stato rimane immutato. L’altro, il migrante del sud del mondo o dell’est europeo, esiste ai margini dell’Italia, non solo geografici. Lo vediamo nei quartieri, nelle scuole, nelle fabbriche, nei campi di pomodori. Che tipo di segregazione razziale e di classe è questa? Cito un episodio raccontatomi da una collega argentina che recentemente è andata in vacanza in Italia: “sono salita su un treno regionale notturno da Roma a Firenze e con mia sorpresa su quel treno c’erano solo stranieri! In maggioranza africani, che andavano o tornavano dal lavoro o si spostavano lungo l’Italia, uomini, donne e bambini… io e mio marito eravamo gli unici bianchi, anche se non italiani. Di essere l’unica bianca mi era capitato solamente in Africa, ma adesso ero in Europa!”.

Grazie, Milena.

Due o tre cose, in più, su Milena Annecchiarico.

È nata a Buenos Aires nel 1983. Ha una laurea in Scienze Umane del Ambiente, del Territorio e del Paesaggio presso l’ Università di Milano, una Laurea Magistrale in Antropologia Culturale presso l’Università di Torino; attualmente svolge un dottorato in Antropologia presso l’ Università di Buenos Aires. Ha studiato a Cuba dove è membro di un importante comitato scientifico. In Italia ha lavorato come mediatrice culturale. Attualmente collabora con molti progetti di antropologia culturale ed etnologia in America Latina. In Italia è cofondatrice di  Antropocosmos, un’associazione culturale senza fini di lucro di antropologhe ed antropologi, con sede sede a Torino.

Indirizzo email di Milena Annecchiarico: milargenta@gmail.com

Testi e foto forniti da F. Cecchini.

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Biografia di Francesco Cecchini

Auto presentazione.

Ho avuto una nonna nata in Brasile, a San Paolo, figlia di due italiani che alla fine dell’ottocento dal Veneto erano andati laggiù. È forse questa la ragione perché il Brasile, che ho visitato in varie occasioni, è per me una terra speciale  che non sento straniera. Sono nato a Roma nell’ ottobre del 1946, ma ora vivo al nord. A Roma mi sono diplomato ed ho vissuto il 68. Dal 1967 al 1978 sono stato un militante a tempo quasi pieno. Ho frequentato le facoltà di sociologia a Trento e di Urbanistica a Treviso; le mie scelte sono state non in funzione degli studi, ma del lavoro politico. Nel marzo del 1978 ho interrotto la militanza politica, ma non ho cambiatole idee. Da allora al 2012 ho vissuto altrove lavorando dapprima in grandi cantieri di costruzioni,  poi dedicandomi alla contrattualistica ed alle ricerche di mercato del settore infrastrutture. Ho fatto analisi e ricerche di progetti infrastrutturali futuri in Algeria, India Nigeria, Argentina, Polonia e Marocco. Ho vissuto in molti paesi e città del mondo: Buenos Aires, Boston, Sai Gon, Lagos, Algeri, Bombay, Tangeri guardando, conoscendo gente ed imparando. Quest’ esperienza di vita è alla base di un progetto di scrittura: una trilogia di romanzi ambientati a Bombay, Algeri e Lagos. Ho scritto il primo, Rosso Bombay, che si trova su Amazon in attesa di una pubblicazione da parte di qualche editore. Sto scrivendo il secondo e del terzo ho definito a grandi linee la trama. Ora scrivo a tempo pieno collaborando con blogs, siti ed un’ agenzia di notizie eritree per temi del Corno d’Africa. Traduco anche dalle lingue che conosco, innanzitutto come esercizio per imparare a scrivere. È tutto, o quasi.

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