CUBA, Amo esta Isla…soy del Caribe

L’audiovisivo “Cuba, Amo Esta Isla” (online in youtube) è un omaggio al popolo e alla cultura cubana e non è una adesione al sistema politico del Paese. Un potpourri di immagini e suoni dell’Isla Grande di Gianfry Grilli

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IL TRIANGOLO PERFETTO di Filippo Bianchi

6. luglio 2014 – 20:50No Comment
IL TRIANGOLO PERFETTO di Filippo Bianchi

Grazie alla regola controcorrente del copyleft (l’opposto a copyright) riprendiamo dal periodico PAN (giugno 2014) il bellissimo articolo (più intervista) di Filippo Bianchi sul leggendario drummer PETER ERSKINE, che il 4 luglio ha inaugurato con il suo European Trio (feat.Palle Danielsson & Rita Marcotulli) la rassegna Lugo Musica Estate 2014. Al termine dell’intervista segue un breve video con alcune immagini della performance di Erskine a Lugo di Romagna.

Immaginate di essere in viaggio su una nave il cui capitano conosce a memoria le mappe di tutti i mari… Rassicurante, no? Ecco, questa è l’impressione che ho tutte le volte che sento suonare Palle Danielsson (foto). È giusto questa sicurezza di cadere sempre in piedi, per quanto spericolata la piroetta, che garantisce a lui e ai suoi partner la più ampia libertà, e che lo ha fatto eleggere contrabbassista prediletto da giganti quali Keith Jarrett, Michel Petrucciani, Elvin Jones, Charles Lloyd e innumerevoli altri.

Fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, Rita Marcotulli (foto) si trasferì in Svezia, attratta da quelle terre ingenerose, ma ricche di magiche fantasie e di significativi silenzi… Per gli scandinavi, l’ostilità della natura è stata ragione sufficiente a ingenerare un forte spirito collettivo e solidale, evidente in politica, ma esteso a molti altri campi dell’agire sociale, jazz compreso. Se volessimo sintetizzare tutto ciò in una formula, potremmo dire che il jazz scandinavo si è sempre caratterizzato per una forte disponibilità all’interazione e allo scambio: nonostante abbia generato solisti di fama, ha raramente accolto lo spirito competitivo e “muscolare” tipico di certo jazz, privilegiando piuttosto l’interplay, il “far musica insieme”. Lo stesso fraseggio di molti di questi musicisti, spesso, sembra teso più a una ricerca di spazialità e di respiro comune, che non a una frenetica accumulazione di note. Il lirismo e la vocazione al canto di Rita, e la sua capacità di avventurarsi fuori dagli schemi consolidati del jazz in funzione di una comunicazione fra i musicisti più libera e creativa, hanno assunto nel suo soggiorno scandinavo maggior spessore e convinzione, inducendo Palle a chiamarla a far parte del suo quartetto. Ma per realizzare il “perfect match”, come dicono gli inglesi, mancava ancora qualcosa…

John Martin sosteneva che in un gruppo un buon batterista è la “binding source”, ovvero ciò che tutto lega e tiene insieme… Le qualità base del jazzista – predisposizione all’ascolto e capacità di reazione – assumono per il batterista un’importanza ancora maggiore. Il primo incontro di Peter Erskine con Palle e Rita avvenne in maniera quasi casuale, nel 1998, in un festival di Atina del quale il vostro affezionatissimo era direttore artistico. Ma come si sa, il caso nel jazz ha spesso un ruolo decisivo, e ciò che a prima vista può sembrare effimero e fragile diventa solido e fondamentale, tant’è che questo sodalizio dura a tutt’oggi e nel 2006 ha registrato alla Casa del Jazz romana un magnifico Cd per la collana “Jazzitaliano, Live 2006”, dell’editrice Repubblica/Espresso.

Nella chiacchierata che segue, Erskine racconta di questo e di molte altre cose, partendo proprio dall’inizio, quando già nell’infanzia era facile capire che presto sarebbe sbocciato uno dei più grandi batteristi della storia del jazz contemporaneo…

Qualche tempo fa ho visto su Facebook un bellissimo video in cui, a circa 10 anni o giù di lì, suoni la batteria: è sorprendente quanto eri bravo già allora! Cos’è che ti ha convinto a scegliere il jazz come forma d’espressione e la batteria come strumento?

Quel video viene da una trasmissione televisiva americana del 1961, quindi in realtà avevo solo sette anni, e il brano era “Sing, Sing, Sing”. Una risposta sintetica potrebbe essere che mi sono sempre sentito attratto dal jazz e ho sempre voluto suonare la batteria. Mio padre, che faceva lo psichiatra, era stato contrabbassista in gioventù; sia lui che mia madre mi hanno sempre molto incoraggiato, e a casa si ascoltava sempre musica.

Hai navigato nel mondo del jazz da Stan Kenton ai Weather Report, uno spettro linguistico davvero ampio direi! Quali sono secondo te i confini del jazz oggi? Riesci a definirli?

Non sono davvero un esperto del jazz di oggi (nemmeno di quello di ieri se è per questo!), ma vedo che sulla scena si affacciano molti musicisti che vogliono ampliare le frontiere; aggiungo che sono stupefatto dal loro talento e dalla loro abilità. Al tempo stesso, so anche che il jazz deve swingare, qualunque cosa sia ciò che associamo al concetto di “swing” (ottavi o terzine che siano), perché ciò è inerente al fraseggio legato che lo contraddistingue: che sia Duke Ellington, Charlie Parker, Miles Davis, Michael Brecker, Rita Marcotulli, o chi credi…

Paul Desmond diceva che «il jazz è come la scrittura, si può imparare ma non si può insegnare». Ciononostante assistiamo a una crescita esponenziale della didattica jazz, e del business che la circonda: la sua capacità di coniugare linguaggi diversi, di sviluppare tecniche e filosofie creative, esercita molto fascino sulle giovani generazioni e asseconda la tendenza prevalente a fornire un’istruzione sofisticata, quindi presumibilmente crescerà ancora. Il problema semmai è che sempre più gente si orienta a suonare questa musica in un momento in cui sempre meno gente sembra disposta a pagare per ascoltarla. La scarsa propensione a produrre nuovo pubblico è un fallimento di questo sistema educativo? Non corriamo il rischio, peraltro assai diffuso in altri ambiti, di avere insegnanti che producono solo altri insegnanti?

Negli Stati Uniti ci stiamo misurando con questi problemi legati alla pedagogia: formazione al lavoro per un mercato del lavoro asfittico (esempio classico, corsi di formazione per suonare in big band, ma dove sono le big band?). Gran parte di ciò che viene insegnato e appreso ha significato e valore di per sé: una persona ben istruita è una persona ben istruita, sia che la disciplina scelta abbia a che fare con l’estetica, l’arte o la scienza. Ma è chiaro che farsi una vita suonando musica improvvisata è una grande sfida. In fondo è sempre stato così, anche se probabilmente le generazioni precedenti avevano più facilità a trovare luoghi in cui farsi ascoltare e conoscere. Quanti gruppi ti vengono in mente che stanno in tournée 50 settimane l’anno, o che suonano nello stesso club per due settimane consecutive? E però, gli alti standard fissati dai nostri eroi del passato si basavano proprio su quelle circostanze: suonare di continuo, in un clima molto competitivo. Quindi da un lato è chiaro che l’abilità nel padroneggiare gli strumenti è cresciuta in maniera straordinaria, ma dall’altro non saprei proprio da dove arriveranno i nuovi grandi poeti della musica. Possiamo solo sperare che l’accesso garantito da internet e dalle tecnologie digitali possa in qualche modo volgersi a vantaggio dell’arte e di una situazione generale migliore per tutti. E questo ci conduce al tema del diminuito supporto che le arti ricevono sia dai governi che dalla società. E anche allo squilibrio economico indotto da una corruzione e un’avidità mai viste prima… o forse viste anche prima… stante che siamo avviati su quella strada già da un pezzo. Proprio per questo, dobbiamo impegnarci sempre più per insegnare a tutti il valore dell’arte, e specificamente della musica, nella vita sociale. Penso che la tua domanda in realtà evidenzi il fatto che siamo tutti parte di un’ampia curva di apprendimento e di aggiustamenti, che non investe solo il jazz o la musica strumentale, ma tutto il complesso della musica e delle arti.

Questo dream trio che suonerà a Lugo, come è nato? Cos’è che ti ha fatto scegliere Palle e Rita invece di altri musicisti?
Veramente sono stati loro a scegliere me!!

In poche parole, potresti tratteggiare il ritratto di tre grandi musicisti con cui ti sei accompagnato: Michael Brecker, Joe Zawinul e Maynard Ferguson. Quali tracce hanno lasciato nella tua musica?
Maynard è stato il miglior boss che ho mai avuto e un grande sostenitore dei musicisti della sua band. Joe Zawinul, al contrario, era molto esigente, cinico e provocatorio… in fondo probabilmente più istruttivo. Michael Brecker era un virtuoso stupefacente e la persona più gentile che abbia mai conosciuto. Sono fiero di essere stato amico e collega di tutti e tre. Michael mi ha insegnato a dare il meglio in qualsiasi situazione e a cogliere ogni opportunità. Zawinul mi ha insegnato a comporre mentre suono. Maynard mi ha insegnato a trattare il pubblico con grazia.

Ovviamente hai uno stile originale e tutto tuo, il che rende difficile rintracciarvi eventuali influenze dei maestri del passato. Puoi darci una mano in questo senso? Chi erano i primi batteristi che hai ascoltato?

Sono stato parecchio influenzato dal drumming di Elvin Jones e Mel Lewis (combinazione interessante, direi), ma anche da Kenny Clarke, Art Blakey, Max Roach, Roy Haynes, Shelly Manne, Buddy Rich, Grady Tate, Bernard Purdie, Al Jackson Jr., Steve Gadd, Jack DeJohnette, Tony Williams e Paul Motian. Art Blakey e Max Roach sono i primi batteristi che ho ascoltato. Per un po’ ho seguito molto Billy Cobham ma l’ingresso nei Weather Report mi indusse a cambiare direzione.

Trovi che i batteristi emergenti siano un po’ carenti di swing? E se dovessi dare un consiglio, meglio concentrarsi sulla tecnica, sullo swing, sulla creatività o su cos’altro? E qual è fra i giovani batteristi quello che trovi più interessante?

Di sicuro non manca lo swing in batteristi come Jeff “Tain” Watts, Billy Stewart, Brian Blade, Jeff Ballard, Greg Hutchinson, e parecchi altri!!! Ascolto spesso con interesse anche Chris Dave. Ho anche alcuni studenti davvero straordinari ai corsi che tengo alla Thornton School of Music dell’ University of Southern California. Loro swingano di sicuro (è mia premura che così sia).

Molto tempo fa, Max Roach ci spiegò che “the drum also waltzes”. Sbaglio o nel tuo modo di suonare c’è una forte componente melodica?

Il Maestro Roach aveva senz’altro ragione! Oltretutto tutto il suo lavoro è stato un’importante esortazione a emancipare la percussione, al di là dei generi: Max ha in qualche modo “sdoganato” la batteria come strumento paritario con gli altri. Quanto alla composizione, credo che dovrei dedicarmici di più. Ovviamente sono portato al ritmo in ogni aspetto della vita, mi pare naturale, ma altrettanto certamente mi affascina una bella melodia. Anzi, credo che sia proprio questo uno degli aspetti carenti nella musica di oggi: delle melodie memorabili e poetiche! Ne troverai molte in questo trio con Palle e Rita, due musicisti che valutano appieno la melodia e il contrappunto. Io completo il “triangolo”: la batteria è il focalizzatore della musica ritmica, e pensare in questi termini è diventato per me molto interessante.

FILIPPO BIANCHI – “PAN” – Giugno 2014

Foto: Gian Franco Grilli

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