Colombia, Gaitán è tornato
Bogotà. Una grande manifestazione per sostenere il processo di pace nel giorno della Memoria nazionale e le vittime del conflitto in corso ha ricordato anche l’uccisione dello storico leader Eliecer Gaitán avvenuta il 9 aprile 1948. Con quell’omicidio, i poteri forti chiusero gli spazi democratici. (articolo di Geraldina Colotti, Il Manifesto, l’ultima, 10 aprile 2015)
«Tutte le voci, tutte le mani». Con questo slogan, si è svolta ieri, in Colombia, la grande marcia per la pace e la solidarietà con le vittime del conflitto. Analoghe manifestazioni in sostegno ai dialoghi fra governo colombiano e guerriglie, in corso all’Avana, si sono svolte in diverse altre parti d’Europa e del mondo: per sostenere le piattaforme comuni elaborate dai movimenti colombiani, impegnati nel portare a soluzione politica il conflitto sociale e armato, che dura da oltre cinquant’anni. E anche per risolvere altri conflitti «simili nel resto del mondo». Una settimana di iniziative culturali ha preparato l’evento, a cui ha partecipato anche l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica.
Per la sinistra colombiana, ieri è stato il giorno della memoria. Ricorreva il 67mo anniversario dall’assassinio di Jorge Eliecer Gaitan, ucciso il 9 aprile del 1948. La scomparsa del carismatico leader del Partido Liberal segnò uno spartiacque nella vita politica del paese e significò la chiusura degli spazi di agibilità politica per una vera opposizione in ambito costituzionale. Gaitan era un avvocato molto apprezzato dai settori popolari per aver difeso operai e contadini in molte cause contro l’oligarchia. In diverse occasioni aveva giustificato le occupazioni di terre e di case, spiegando pubblicamente le cause che ne erano all’origine, basate nell’impoverimento e nella violenza subite dai meno favoriti. La sua attitudine politica tendente al socialismo e le sue posizioni antimperialiste stavano facendo presa nel Partido Liberal. Una ragione sufficiente per fare esplodere l’odio delle oligarchie al governo, incastonate nei partiti tradizionali. Per questo, benché gli esecutori materiali dell’omicidio non siano mai stati identificati, si può avere un’idea precisa dei mandanti e del contesto in cui è maturata l’esecuzione. L’uccisione di Gaitan suscitò grandi proteste sociali e rivolte armate in tutto il paese.
La Colombia – che per estensione somma l’equivalente di Francia e Spagna — oggi è una nazione a carattere prevalentemente urbano, ove il 70% delle persone vive nelle città. Allora, contava una popolazione in prevalenza contadina. Il cambiamento si è imposto a prezzo di storture profonde e finora insanabili. L’espulsione brutale imposta dal latifondismo a circa un milione e mezzo di persone, le ha costrette ad abbandonare le regioni di provenienza: vittime della controriforma agraria (che iniziò disattivando la legge 200 del 1936 e proseguirà con la demolizione dello schema disegnato dalla 160 del 1994 e dagli altri tentativi senza sostanza), e degli eserciti di paramilitari agli ordini dei potentati economici, e responsabili di massacri e crimini contro l’umanità. Circa 50 milioni di ettari di terra, dedicata all’agricoltura e coltivata nei piccoli poderi, sono stati progressivamente sottratti, con la frode o con la violenza, alle famiglie, costrette a trasferirsi in città per sopravvivere. In un paese di quasi 37 milioni di abitanti, 25 milioni vivono in povertà e, di questi, 10 milioni in povertà estrema. E spesso forniscono alimento ai circuiti di violenza endemica, generata dalla decomposizione del tessuto sociale.
L’assassinio di Gaitan ha reso evidente l’assenza di una democrazia reale e di garanzie sufficienti a favorire la partecipazione collettiva in un processo di ricostruzione nazionale. Una situazione che ha sempre più acutizzato la crisi politica, incrementata dalla violazione sistematica dei diritti umani da parte degli agenti dello stato, dagli alti livelli di corruzione che interessano quasi tutte le strutture del potere, fortemente legate al narcotraffico e alle reti dei paramilitari.
Il periodo tra il 1948 e il ’65 è ricordato come «l’epoca della violenza». Un lasso di tempo durante il quale il potere venne ridistribuito tra i due potenti partiti tradizionali, il Partido Conservador e quello Liberal, che chiusero gli spazi di partecipazione democratica e organizzarono la repressione delle istanze di trasformazione. In quel contesto, a metà degli anni ’60 nacquero le due principali guerriglie di sinistra, quella marxista delle Forze armate rivoluzionarie (Farc) e quella guevarista dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln). Per cinquant’anni, le Farc hanno cercato una soluzione politica al conflitto armato, pagando però sempre uno scotto altissimo, seguito al fallimento della via istituzionale. Il 28 maggio del 1982 venne firmato il primo accordo di tregua e cessate il fuoco con l’allora governo di Belisario Betancur. Due anni dopo, venne costituita la Union Patriotica, un movimento politico che coagulò la proposta di cambiamento sociale e politico della sinistra e ottenne un’inedita conferma elettorale. Ancora una volta, però, i grandi aggregati di potere richiusero nel sangue quello spiraglio.
Potrà andare diversamente ora? Ai tavoli dell’Avana, che si sono aperti due anni fa sotto l’egida della Norvegia e del Venezuela, la soluzione politica sembra basarsi su solide possibilità. E’ stato raggiunto un accordo sostanziale sui principali punti in agenda, a partire dalla riforma agraria. Nelle trattative, si sono affacciati anche alcuni dei principali attori dei conflitto (le alte sfere delle forze armate) e i burattinai (gli Stati uniti). I burattini fuori controllo, come l’ex presidente Alvaro Uribe, grande amico dei paramilitari, faticano a muovere le loro pedine all’interno e le dirigono oltreconfine, all’occorrenza per destabilizzare il Venezuela. Le forze che si battono per un’alternativa strutturale non sono però disposte a firmare un assegno in bianco. I costi pagati dalle classi popolari per garantire i privilegi di una minoranza diventano sempre più insostenibili. In vista delle elezioni di ottobre, potrebbe soffiare lo stesso vento che ha trasformato gran parte dell’America latina? Intanto, dai cartelli della marcia, arriva un augurio e una promessa: che questo sia «un aprile di speranza, la primavera della pace».