Hugh Masekela, addio al jazzista sudafricano
Lutto per la Black Music, che sia Jazz, Mbaqanga (ultima discendente degli idiomi jazz) e Mbube (tradizione vocale sudafricana) non importa: il 23 gennaio 2018 si è fermato per sempre il battito del cuore di uno dei suoi più importanti protagonisti, HUGH MASEKELA, cantante e trombettista, uno dei padri del jazz sudafricano. Aveva 78 anni, è deceduto nella sua città natale, Johannesburg, dove da bambino aveva iniziato a cantare nel coro della sua scuola ma dopo la visione del film “Young man with horn” venne fulminato dall’amore per tromba (e flicorno). Un combattente contro l’apartheid.
Nel 1961 a Londra incontrò Harry Belafonte, che anni dopo lo aiutò a trasferirsi negli Stati Uniti per studiare. Qui strinse amicizia con grandi musicisti come Miles Davis, Jimi Hendrix o Dizzy Gillespie e Louis Armstrong che lo incoraggiarono a sviluppare un linguaggio jazzistico personale. Ma era amico anche del pugile Mohammed Alí.
Nella sua carriera incrociò la sua musica con altri grandi colleghi dell’Africa Nera, da Fela Kuti a Manu Dibango. Per superare la censura di grandi discografici e distributori statunitensi sui contenuti politici e provocatori delle sue canzoni, Hugh fondò poi un paio di sue etichette. All’inizio degli anni Sessanta suonò con i Jazz Epistles, il gruppo che incise il primo album di jazz nel paese e al piano c’era Dollar Brand (che prese poi il nome musulmano Abdullah Ibrahim). Lottò sempre contro l’apartheid e tornò in patria nel 1990 dopo trent’anni di esilio come numerosi altri artisti sudafricani, tra cui “Mama Africa” ossia Miriam Makeba, sua futura moglie per un paio di anni. Il suo successo più importante fu il singolo Grazing in the grass e uno dei suoi album più azzeccati Technobush, combinando funky occidentale e melodie mbaqanga. La sua “Soweto Blues” parla di bambini del quartiere Soweto (Johannesburg) che scappano dalle pallottole della polizia durante una protesta contro il governo che voleva imporre l’apprendimento solo dell’afrikaans, la lingua degli oppressori cancellando quelle native. Nel 1987 scrive “Bring Him Back Home” dedicata a Nelson Mandela che si trovava in carcere. Masekela aveva idee chiare sulle musiche del mondo, sulle varie commistioni. Disse a Graeme Ewens: ” Il samba, la salsa, la musica zairese o l’highlife sono tutte sonorità che mi hanno attratto. Tutto è influenzato dall’occidente. E se guardi la musica occidentale moderna, è tutta influenzata dall’Africa. Quindi il fulcro della questione è africano-americano. L’antica diaspora del popolo africano ancora ci confonde…il fatto è che tutti viviamo in un mondo universale e il criterio dovrebbe essere su cosa è buono e cosa no”. Ci lascia una discografia sterminata tra album come leader e collaborazioni varie. (gfg)