CUBA/ Paquito D’Rivera, tutte le musiche del mondo
Incontriamo uno dei grandi Maestri del clarinetto contemporanea e del sax contralto per farci raccontare in dettaglio la unga storia della sua avventurosa vita, che nel 1980 l’ha visto fuggire da Cuba per cominciare da capo negli USA. Quella che segue è l’intervista integrale di Gian Franco Grilli, di cui una parte significativa è stata pubblicata sul mensile Musica Jazz (maggio 2017).
Da molti colleghi Paquito D’Rivera (1948) è considerato il miglior clarinettista in circolazione del panorama jazzistico internazionale, ma anche il sassofonista (alto e soprano) più importante di Cuba di tutti i tempi. Niño prodigio, a nove anni fu invitato per una serie di concerti nella Repubblica Dominicana, poi a Porto Rico venne accompagnato addirittura dall’orchestra di Machito e Mario Bauzá, e nel 1960 suonò a New York dove ritornò nel 1978 con il concerto trionfale di Irakere conquistando il pubblico della Carnegie Hall con la sua memorabile cubanizzazione dell’”Adagio” di Mozart. Nella Grande Mela andrà a vivere un paio di anni dopo, da esiliato: e da uomo libero inizierà una fortunatissima carriera da solista, con una quantità di progetti che trascendono le categorie musicali, collaborazioni e premi (tra cui 14 Grammy) difficile da riassumere in poche righe. Così abbiamo tentato di farlo attraverso un botta e risposta con questo virtuoso musicista e prolifico compositore che ha messo il proprio talento al servizio del jazz panamericano, della musica classica, delle musiche popolari e folkloriche dell’America Latina, partendo ovviamente dall’ afrocubana. Una chiacchierata che ha toccato anche punti delicati, contradditori, della sua vicenda personale come dissidente anticastrista; ma il nostro, che odia tutti i dittatori, si è rivelato un personaggio aperto, divertente e amabilissimo. E’ raro vederlo nel Belpaese, dove invece gli piacerebbe suonare di più e in particolare con Gabriele Mirabassi , che definisce “un clarinettista meraviglioso” e con lui condivide l’amore per la musica brasiliana.
Vogliamo partire dal Jazz Cruise 2017, da cui sei appena rientrato?
Con mucho gusto. E’ la seconda volta che partecipo a questa crociera caraibica di alto livello che quest’anno ha toccato Messico, Belize e Cozumel e tra gli artisti c’erano Eliane Elias, il clarinettista Eddie Daniels, John Pizzarelli e tanti altri. Ho fatto quattro concerti assieme agli archi del Quinteto Cimarrón, un gruppo di cubani residenti in Galizia che conobbi anni fa proprio in quella regione in occasione di un simposio organizzato da Cristina Pato, virtuosa della gaita, la cornamusa galiziana. Rimasi tanto affascinato dalla loro musica che decisi poi di registrare il disco «Aires Tropicales» (2015), un appassionante percorso acustico di jazz latino da camera, ossia la fusione di musica classica, musica cubana di ieri e oggi (contradanza, habanera, danzón, bolero) e jazz. Una novità per il jazz che ho voluto presentare su questa città galleggiante e allegra che è il Jazz Cruise.
Quel “crucero de jazz” turistico mi richiama alla mente il Daphne, la famosa nave che nel 1977 sbarcò inaspettatamente all’Avana con una delegazione di notissimi jazzisti statunitensi tra cui Dizzy Gillespie, lo scopritore del rivoluzionario jazz afrocubano di Irakere di cui sei stato co-fondatore assieme a Chucho Valdés. E dopo quarant’anni il Re Mida del pianismo jazz caraibico ha vinto un nuovo Grammy per il «Tribute to Irakere – Live in Marciac» come miglior disco di latin jazz del 2016. Ti sarebbe piaciuto contribuire a questo disco? E visto che è finita la guerra fredda tra Cuba e Usa con il dialogo promosso da Obama, se il prossimo Jazz Cruise toccasse anche L’Avana ci andresti?
Sono felice che Chucho sia stato premiato perché è un musicista e compositore strepitoso, ma quel disco non l’ho ancora ascoltato e lo comprerò oggi. Da anni abbiamo percorsi differenti con Chucho anche se ogni tanto capita di collaborare come successe anche a Marciac anni fa, si trattava di un’ottima orchestra e lo conservo come un bel ricordo. Come indimenticabile resterà il meeting americano-cubano all’Avana da te citato e alcuni momenti di quell’esperienza li ho raccontati nel mio ultimo libro, “Letters to Yeyito: Lessons from a Life in Music”, una raccolta di episodi ambientati a Cuba a metà tra il reale e la finzione e tra questi “Sherlock Holmes all’Avana” parla del mio incontro con Dizzy Gillespie, Stan Getz, David Amram, Earl “Fatha” Hines e altri presenti a quell’evento. Se il Jazz Cruise andasse all’Avana? Finchè ci saranno i comunisti al potere non ritorno nella mia città per nessun motivo.
L’incontro storico con Gillespie e colleghi, fu organizzato solo per l’elite come racconta il musicista e scrittore Leonardo Acosta. E’ vero?
Verissimo e ti ringrazio di questa precisazione. La burocrazia fece in modo di tenere alla larga artisti e giornalisti cubani. Soltanto Irakere e un paio di gruppi furono invitati a suonare e a interscambiare con i musicisti statunitensi in teatro e in un paio di jam session. Questo fu un esempio della burocrazia comunista: dove arriva quel sistema di governo non crescerà più l’erba.
Però non puoi negare che nel socialismo tropicale cubano, con tutti i limiti che ha mostrato, si sono formati, e gratuitamente, ottimi musicisti, cantautori e jazzisti di fama mondiale come Chucho Valdés, tu stesso, Arturo Sandoval, Gonzalo Rubalcaba, El Negro Hernandez o Leo Brower, per non parlare di Changuito, Juan Pablo Torres, Pablo Milanés. E’ giusto buttare il bambino con l’acqua sporca?
Nonostante quello che tu hai evidenziato, io ritengo che tutto sia molto negativo e ti faccio un esempio: se prendo una coca-cola e la pago un dollaro va bene, però se mi costa tre volte di più questo è un abuso, è troppo. L’educazione, la sanità e la formazione dei cittadini di cui il regime si fa vanto costa troppo caro per la gente, costa la libertà di espressione; questo sistema ha poco da salvare. Sarebbe come apprezzare Mussolini, Hitler o Stalin per alcune iniziative sociali che hanno realizzato: no, tutti costoro sono stati dannosi per l’umanità.
D’accordo sull’ultima parte, comunque bisogna guardare avanti e con il dialogo. E la riprova sta nel fatto che il cammino del nuovo jazz cubano cambiò quando si favorirono gli interscambi tra la Cuba castrista e l’amministrazione Carter: dopo la visita di Gillespie, e nel 1978 della delegazione CBS, l’esplosività di Irakere conquistò i jazzisti Usa e del mondo, vinse un Grammy nel 1979 e sdoganò moltissimi musicisti cubani. Nella storica tournée Irakere negli States meritasti una standing ovation per una versione cubanizzata dell’“Adagio” di Mozart alla Carnegie Hall. Mica poco o no?
Hai ragione, qualsiasi relazione che permetta di far incontrare artisti cubani e nordamericani mi trova d’accordo, ma dietro ci sono stati tanti sacrifici, una vita troppo controllata dall’alto. Tuttavia riconosco che dopo la miracolosa visita di Gillespie migliorò moltissimo la vita di diversi artisti cubani e con Irakere i successi furono considerevoli. Io mi presi belle soddisfazioni nella Mecca del Jazz e in vari festival internazionali, questo sì è sacrosanto.
Stiamo per un attimo negli Stati Uniti. Tu sei stato ricevuto da George Bush e il 30 aprile 2016 hai suonato per Obama alla Casa Bianca assieme a Chucho Valdés, Lionel Loueke e altri. Ora la rigida politica di controllo dei movimenti migratori e di circolazione introdotta da Trump non credi possa creare seri problemi agli artisti che chiedono il visto per guadagnarsi da vivere nel mercato culturale più grande del pianeta. Gli immigrati hanno contribuito alla grandezza del Paese e questa assurdità rischia di impoverire anche lo sviluppo delle musiche e del jazz. Da latino cosa ne pensi?
Trump non lo conosco come una persona vicina alla cultura, alla musica, non so cosa succederà perché è un tipo imprevedibile e non posso dare un’opinione in quanto so pochissimo di lui. Ma so che quando ci fu la celebrazione alla Casa Bianca con Obama, qualcuno cercò di tagliarmi fuori da quel concerto per ingraziarsi un artista come Chucho, che rappresenta la dittatura di Cuba. Ma forse pochi conoscono la storia completa di questo evento.
Chucho non mi sembra tanto castrista ma… spiegaci meglio quel retroscena.
Il Monk Institute, che stava organizzando l’International Jazz Day alla Casa Bianca , mi inserì nella lista degli artisti che avrebbero suonato in quell’evento. Dopo una settimana però mi scrissero che mi era stato vietato di partecipare a questa cerimonia. Indignato mandai una lettera sostenendo che era assurdo impedire a un cittadino statunitense, lo sono da tempo, di suonare , e questo ovviamente per gratitudine a Cuba perché sapevo che Chucho ci sarebbe stato. Il giorno dopo mi avvisarono che tutto era risolto. L’antefatto era questo: sei mesi prima, quando Obama iniziò il flirt con Raul Castro, uscì su un giornale una mia foto con un cartello di fronte alla Casa Bianca con su scritto: “Obama questa negoziazione è con la dittatura e non con il popolo cubano”. Evidentemente ciò non era piaciuto al Presidente. Se me lo permetti torno sul tema perché a mio modo di vedere quell’accordo non aggiusta niente e anzi rafforza il regime. L’argomento non è migliorare il pranzo degli schiavi ma liberarli dagli schiavisti dall’Isla. Bisognerebbe fare come in Sudafrica quando nessun artista andava lì a suonare perché voleva dire legittimare il governo razzista e dopo un forte embargo si riuscì a scarcerare Mandela.
Forse esageri, hai una posizione ultraintransigente e oramai poco condivisa anche dalle nuove generazioni di cubano-americani che vogliono girare pagina. E poi, Paquito, diciamola tutta: l’embargo non serve mai, e il bloqueo Usa non solo non ha scalfito ma ha dato una mano al consolidamento del governo dell’Avana alzando la politica del nemico. Inoltre se dopo mezzo secolo il castrismo è ancora in piedi (e ora senza gli aiuti dell’Urss) vorrà dire o che la maggioranza è d’accordo, o è rassegnata, e comunque sia ogni popolo si merita il governo che ha. Detto ciò, ti ricordo che nel dicembre scorso al Jazz Plaza festival dell’Avana c’erano moltissimi statunitensi; dopo decenni sono ripresi i voli diretti tra Cuba e Stati Uniti. E prima ancora, Chucho Valdés è stato accolto a Miami per celebrare il 42° di Irakere. Sono frutti del dialogo.
Capisco la tua analisi, certamente la colpa principale è dei cubani che hanno perso il senso civico e si sono preoccupati solo di ottenere miglioramenti nella razione di riso e fagioli e non di battersi per la libertà. Vedere avvicinare i tempi e le persone è positivo, ma non darmi del bastian contrario se dico che è positivo anche per le tasche della famiglia Castro.
Cambiamo registro e parliamo di te cominciando con il detto cubano “el que no tiene de congo, tiene de carabalí”. Vuoi mostrarci la tua carta d’identità?
Mi chiamo Francisco Jesús Rivera Figueras, sono nato il 4 giugno 1948 a Marianao, un municipio dell’Avana molto vicino al famoso cabaret Tropicana. Nonostante la mia pelle chiara sono mulatto, guardami le narici e capisci. Mio padre, Tito, suonava musica classica con il sax tenore e faceva parte dell’orchestra del Teatro Martí, gli piacevano molto Lester Young, Stan Getz e Benny Goodman ma lui non aveva talento come improvvisatore. Aveva anche una piccola attività come importatore di strumenti musicali ed era rappresentante della Selmer, famosissima marca francese di sassofoni. Il negozio, situato in calle Virtudes 57 (vicino al Paseo del Prado nel centro dell’Avana), era un punto di riferimento per tanti musicisti: Cachao veniva a comprare le corde per il basso, Chico O’Farrill a prendere olio per la tromba, Ernesto Lecuona comprava spartiti, poi venivano Bebo Valdés e altri.
L’apostrofo e la D davanti a Rivera è una scelta artistica? Quando e come decidesti di fare musica?
Paquito è un diminutivo di Francisco e l’apostrofo e la D lo si deve all’impresario portoricano Catalino Rolón quando ci propose un contratto per suonare a Santo Domingo e a Porto Rico e ricordo che disse a mio padre: “A San Juan ci sono migliaia di Rivera, tra cui anche molti musicisti, quindi suggerisco di aggiungere un D davanti al cognome”. E da lì in avanti sono D’Rivera. Poiché mio padre era un pensionato dell’esercito, studiava il sassofono giorno e notte e io cercavo di imitarlo con un sax di plastica, ma a cinque anni me ne regalò uno vero della Selmer. Dopo un anno di studio suonavo già in pubblico e la prestigiosa azienda francese scrisse in una pubblicità con una mia foto: “perfino un bambino può suonare un Selmer”. Anche questo è documentato in “Mi Vida Saxual”.
Quindi da niño prodigio dove debuttasti e suonando cosa?
L’esordio fu all’Avana nel teatro della Community House, una scuola nordamericana, in una festa di fine corso e suonai con il quintetto di sassofoni dell’Orchestra Continental: prima intonai Habanera, Tú di Eduardo Sánchez de Fuentes e poi La Comparsa di Ernesto Lecuona. Nel 1957 con mio padre andammo a suonare nella Repubblica Dominicana dove mi esibii con l’Orquesta Angelita, dove suonava Tavito Vásquez (un virtuoso dell’alto che applicò il concetto dell’improvvisazione nel merengue e amava Charlie Parker); poi suonai anche a San Juan di Porto Rico e accompagnato nientemeno che dall’orchestra di Machito e Mario Bauzà in uno spettacolo presso il Cabaret El Escambrón di fianco all’Hotel Normandie. Nel 1960 sempre con mio padre venimmo a New York per un concerto nel Teatro Puertorico con l’orchestra dell’ottimo trombettista portoricano César Concepción.
Hai seguito corsi accademici? E il musicista che più di ogni altro ti ha influenzato?
Cominciai a studiare un piccolo sax soprano curvo (e ce l’ho ancora) e il clarinetto con mio padre e poi al Conservatorio Alejandro Garcia Caturla di Marianao facendo anche armonia e composizione. Un maestro importante che mi ha sicuramente influenzato è stato Enrique Pardo, il primo clarinetto dell’orchestra Filarmonica de La Habana, che negli anni Quaranta ebbe come direttore il famoso Erich Kleiber, austriaco, padre di Carlos Kleiber, altro grandissimo direttore d’orchestra.
Secondo te il talento musicale è innato? E il virtuosismo cosa rappresenta?
Boh, non so, forse non necessariamente è innato. Se ti riferisci all’improvvisazione, qualcosa devi avere ma può svilupparsi con lo studio costante, l’impegno, la perseveranza e con uno spirito musicale onnivoro. Per me il virtuosismo è lo spirito vittorioso dell’uomo libero.
I tuoi idoli del jazz chi sono stati? E il più importante sassofonista cubano prima della Rivoluzione?
Inizialmente mi innamorai di Benny Goodman, successivamente di Charlie Parker, Eric Dolphy, Cannonball Adderley, Lee Konitz. A mio parere Gustavo Más è stato il tenorista cubano più significativo e visse a lungo a New York suonando con Woody Herman, morì a Miami. Altri sassofonisti importanti cubani sono stati Pedro Chao e lo stesso Leonardo Acosta.
Si continua a leggere che nella Cuba rivoluzionaria il jazz era proibito e perfino punito con la galera. Ma ci sono alcune testimonianze che mostrano il contrario: tralasciando i locali dove c’erano orchestre che suonavano jazz cito alcuni esempi che ti riguardano: nel 1963, al festival del Jazz nel Teatro Payret suoni con il gruppo di Adolfo Pichardo presentato dall’afroamericano Robert Williams; ti esibisci con Los Chicos del Jazz; nel 1967 sei direttore del quartetto jazz dell’Orquesta Cubana di Musica Moderna; nel 1969 sei membro della Commissione Jazz nel Consiglio Nazionale della Cultura; negli anni Settanta organizzi le maggiori jam session al Rio Club, la Mecca del Jazz a Cuba. Qual è la verità?
Non c’è mai stata una legge scritta però il jazz e le musiche occidentali, diciamo imperialiste, erano mal viste. Sono vere le cose sul mio conto. Comunque quel Robert Williams, che poi fu un ispiratore dei Black Panther, si stabilì a Cuba per alcuni anni e il festival del 1963 che hai citato lo promosse lui. Il socialismo gli andò bene fino a quando riuscì a fumare marjuana eccetera, poi se ne andò altrove.
Anche se eri un bambino ricordi quando i barbudos entrarono all’Avana mettendo in fuga Fulgencio Batista e non avevi capito che c’era una guerra civile in corso?
Eccome, me ne resi conto bene, ed eravamo tutti contenti perché ci liberavamo di una dittatura di sette anni e tutta la mia famiglia era contro Batista. E questo durò fino all’8 gennaio del 1959 quando Fidel Castro pronunciò il suo primo discorso alla nazione ripreso dalla televisione. A un certo punto quando Fidel chiese a Camilo Cienfuegos “Voy bien Camilo?”, mia madre si alzò e disse: “questo personaggio è peggio di colui che è appena fuggito”. I miei genitori poi se ne andarono negli Stati Uniti nel1968.
Nel 1970 suoni con il quintetto di Chucho Valdés al Jamboree Jazz Festival di Varsavia, la prima formazione cubana in un festival internazionale di jazz.
Lottammo molto per andare a quel festival dove tra l’altro suonarono anche Dave Brubeck e Gerry Mulligan i quali dopo la nostra performance vennero nel nostro camerino a complimentarsi. Noi cercammo poi di invitarli a Cuba ma non fu possibile, tutto era in mano ai burocrati che facevano il bello e cattivo tempo.
A parte Irakere e di altri gruppi con cui hai suonato e di cui abbiamo già detto, ci sono altre esperienze jazzistiche nel tuo baule dei ricordi cubani?
A metà degli anni Settanta lavoravo anche in trio con Emiliano Salvador alla batteria e non al pianoforte. Emiliano è stato uno dei pianisti jazz cubani più interessanti e anche come batterista era talentuoso, creativo, uno stile alla Roy Haynes ma poi lasciò le pelli per dedicarsi solo ai tasti. Il bassista del trio era Carlos Del Puerto e suonavamo pezzi di Dolphy, di Emiliano, miei e sconfinavamo spesso nel free jazz. Purtroppo non abbiamo inciso nulla e credo che esista solo una registrazione su musicassetta di un concerto all’Università fatta da un architetto italiano, Roberto Gottardi, che viveva all’Avana.
Il 1980 fu un anno drammatico per Cuba, con i fatti all’Ambasciata del Perù e l’esodo di massa dal porto di Mariel iniziato a metà di aprile, e anche per te. Infatti dopo tre settimane, in occasione di una tournée in Scandinavia con Irakere, decidesti di fare la fuga lasciando Chucho e colleghi durante lo scalo all’aeroporto Barajas di Madrid. Dopo la prima massiccia ondata all’inizio del Sessanta , tu sei stato il primo a riaprire la vena della diaspora dei musicisti che lasciarono l’isola. Ti va di parlare di quella sofferta vicenda?
Ti parlo di questa pagina senza problemi perché apprezzo di parlare con chi non solo è informato sulle nostre musiche ma anche sulla storia latinoamericana e allora forse posso arricchire le tue conoscenze. Lasciare il proprio Paese è una cosa difficile da sopportare, però quando non ce la fai più non pensi al resto. Avevo già pianificato da tempo questa scelta dolorosa valutando tutte le incognite, le conseguenze per i miei familiari che rimanevano all’Avana, poi a chi chiedere aiuto e lavoro in un’altra terra. Quello che successe all’ambasciata peruviana fu terribile, una violenza inaudita, stalinista, contro la gente che chiedeva asilo e alla fine lasciarono il paese in centoventicinquemila. Il 7 maggio all’aeroporto di Madrid con Irakere dovevamo aspettare otto ore prima di proseguire il volo e quando ci chiamarono per l’imbarco dissi a Chucho che avevo dimenticato il sassofono in un posto. Ricordo le sue ultime parole: “Corri a prenderlo”, ma non ritornai più, nonostante la perdita di un matrimonio eccetera. Ora la mia prima moglie con mio figlio Franco vivono a Miami.
In Spagna prima di trasferirti negli Stati Uniti come di mantenevi?
Rimasi sei mesi in Spagna e mi ospitò in casa il batterista uruguaiano di origine italiana Carlos Carli, deceduto da poco, che conobbi e diventammo molto amici. Dei musicisti sudamericani mi procurarono lavoro nel Club Dallas e dopo mesi arrivò la richiesta di mia madre dagli Stati Uniti per il ricongiungimento familiare.
Il primo club newyorkese dove hai debuttato?
Fu il Soundscape, nell’avenida 10, un jazz club fondato da Verna Gillis e frequentato soprattutto da musicisti di origini latinoamericane tra cui spesso c’era Andy González, ma suonavano anche jazzisti con altre esperienze culturali alle spalle.
Negli States cominciasti subito a pubblicare dischi tra cui «Mariel», omaggio alla grande onda migratoria e con un brano ispirato a Thelonious Monk. Poi ti sei interessato molto alle musiche popolari dell’America latina e le collaborazioni non si contano più.
Quello è stato il mio terzo disco, un omaggio alle migliaia di persone che hanno affrontato la via del mare per cercare la libertà. Sì in MonkTuno ci sono alcuni movimenti melodici con tracce monkiane unite a ritmo latino, al montuno che è una sorta di denominatore comune della nostra musica e un linguaggio adottato tra l’altro in molte musiche del continente. Musiche che ho indagato poi con la mia band Havana-New York Ensemble combinando jazz e musiche di altri paesi latinoamericani grazie anche ai contributi di musicisti come Michel Camilo, Danilo Perez o Claudio Roditi; poi ho suonato tango, altra musica di esiliati, con Astor Piazzolla nel bellissimo «Tango Apasionado» prodotto da Kip Hanrahan; ho intrecciato il mio sassofono alle steel pan, al calypso con Caribbean Jazz Project, ho collaborato con Chico O’Farrill e Mario Bauzá. Un’esperienza magnifica quella con The United Nation Orchestra di Dizzy Gillespie, e alcuni anni dopo condivisi la direzione musicale della band con Slide Hampton. Nella mia discografia, «Portraits of Cuba» registrato con la big band, lo considero uno dei miei lavori più belli.Tralascio la parte sul versante classico e sinfonico che è molto corposo, ma chi vuol saperne di più vada sul mio sito.
Da molto tempo sei anche ‘ambasciatore’ di interculturalità musicale in bilico fra jazz, latina e classica e sostieni musicisti immigrati alla conquista di New York come il venezuelano Ed Simon o il colombiano Edmar Castañeda.
Bisogna tenere presente che ci fu un grande contributo di musicisti latinoamericani alla musica statunitense e meno nel senso contrario. E io cerco di continuare quel filone. Da quando scoprii la frase di Jelly Roll Morton sull’importanza dell’incontro tra sonorità ispaniche e musiche americane il mio interesse si è concentrato sulle culture musicali del mio Continente alcune delle quali non sono mai decollate a livello internazionale. Un esempio, la musica venezuelana, di cui molta è in sei ottavi, ha un enorme valore come musica popolare, joropo, bolero eccetera, ci sono ottimi compositori ma… Quando posso mi piace lavorare con musicisti meritevoli, soprattutto se giovani, di cultura ispanoamericana, ma non solo. Comunque la grande forza dell’America latina è rappresentata da Cuba, Brasile e Argentina e nessun paese può competere musicalmente con loro.
Ti sei adoperato anche come promoter per creare disgelo tra artisti cubani e riportare sulla scena internazionale il leggendario Bebo Valdés che da tempo era nel dimenticatoio. Nel 1994 hai prodotto «Bebo Ride Again» e Fernando Trueba un docufilm, qualcosa di simile al più fortunato progetto Buena Vista Social Club di Ry Cooder e Wim Wenders. Come ripescasti Bebo?
Bebo lasciò Cuba nel 1960 e io lo rividi un mattino del 1981in una caffetteria di Broadway perché era venuto a visitare una sua sorella, ma lui viveva in Svezia. Da molti anni coltivavo l’idea che Bebo tornasse ad incidere e un giorno ne parlai a Götz Wörner della Messidor che accettò subito di produrre questo lavoro quando meravigliatissimo scoprì che Bebo Valdés era ancora vivo. Contattai Bebo ma non voleva saperne di ritornare sul palcoscenico e di partecipare alla registrazione del disco, che per la prima volta avrebbe riunito musicisti cubani in esilio e altri di Cuba. Insistendo si convinse e parteciparono alla registrazione Juan Pablo Torres, Carlos Emilio Morales, Amadito Valdés e altri. All’ultimo momento,invece, Chucho no arrivò in Germania, evidentemente al regime non piaceva che si incontrasse con musicisti esiliati. Trueba lanciò poi Bebo con un film, una cosa differente da Buena Vista, che fu un’operazione commerciale in grande stile, la nostra no.
Bebo e Chucho si incontrarono poi l’anno successivo ospiti del tuo disco «Cuba Jazz: 90 Miles to Cuba». Perché desideravi tanto questa reunion nonostante il tuo disaccordo sul pensiero di Chucho che una volta hai riassunto così: “si bien no se sabe lo que piensa, sì se sabe lo bien que toca”?
Per me era un atto d’amore nei confronti di Bebo perché era molto amico di mio padre ancora prima che io nascessi e inoltre volevo farlo suonare con suo figlio Chucho, con il quale ho condiviso grande musica. Il meeting di questi due grandissimi pianisti avvenne sulle note de El Manisero (The Peanut Vendor), il disco però non decollò. Mi fa ridere la frase che hai ricordato (me ne ero dimenticato) perché effettivamente non sai mai quello che Chucho sta pensando, e credo che sia un meccanismo maturato dopo tanti anni di silenzio nel comunismo, cioè lui non dice quella che pensa. Sono convinto che lui non è un comunista ma gli conviene parlare poco, perchè abbandonare tutto è difficile, ci vuole molto coraggio, quello che invece ebbe suo padre. Questo però non indebolisce la mia amicizia con Chucho, che come pianista e compositore è un tipo geniale.
I ritmi del Caribe (con la dittatura della clave cubana) e sudamericani mescolati al jazz sono la base del latin jazz: tu che hai una visione panamericana del jazz includeresti dentro il latin la bossa nova e il samba?
Ci sono molte cose in comune tra la musica brasiliana e il resto dell’America latina, ma francamente il Brasile è una cosa distinta a partire dalla lingua, il portoghese. La loro è una musica più libera e senza “la dittatura della clave” come la chiami tu. Sono d’accordo e scusa se rido ancora ma mi piace questa tua definizione.
Ci sono jazzisti di Cuba degli ultimi anni che ti hanno impressionato?
In particolare sono i contrabbassisti, perché prima ce n’erano due o tre al massimo. Mi piacciono molto Gastón Joya, giovane avanero molto interessante e Lázaro “El Fino” Rivero Alarcón originario di Villa Clara. Entrambi hanno suonato tra l’altro con Chucho Valdés. Naturalmente ci sono tanti altri bravi strumentisti, Cuba è un paese musicale da sempre.
E’ cambiata la tua identità come artista mischiando elementi culturali del paese di origine con quelli del paese che ti ospita? Possiamo definirti jazzista ibrido?
Più che il Paese direi la città, io vivo di fronte a Manhattan e New York è una metropoli multinazionale, qui ho imparato moltissimo da questa grande varietà culturale; sono sempre stato nemico di nutrirmi solo delle mie radici come succede in quelle tribù che si sposano tra di loro. Io sono cubanissimo ma ho uno spirito cosmopolita, voglio alimentarmi di altre culture ed è quello che ho fatto decidendo di vivere fuori di Cuba arricchendo la mia vita e la mia carriera. Al contrario mi annoierei tremendamente, io non riuscirei a suonare sempre la stessa musica. C’è chi suona solo tango tutto il giorno, io non ce la farei con un genere così poco allegro, e nonostante che il tango mi piaccia molto, ma solo per un po’. Bisogna variare l’insieme con un po’ di montuno, di Jobim, di Stravinsky eccetera; io attraverso agilmente i confini tra musica classica, jazz e popolare, suono la musica in tutte le sue forme. Mi va benissimo, dunque, se mi definisci un jazzista ibrido.
Sono diversi anni che non lavori in Italia, perché? E conosci i jazzisti italiani?
Molti anni fa ho suonato a Umbria Jazz con due o tre progetti e l’ultima volta circa sette anni fa in Toscana per un concerto di musica da camera, ma francamente non riesco a realizzare molto in Italia, dovrò cercare un manager lì. Un jazzista italiano con il quale mi piacerebbe suonare è Gabriele Mirabassi, clarinettista meraviglioso che non conosco personalmente ma con il quale so di condividere un grande amore per la musica brasiliana. E ti sarei grato di metterci in contatto, attraverso queste pagine, e magari riuscire a presentare qualcosa nel vostro Paese che adoro.
Tra i mille impegni sei stato o sei direttore artistico di festival musicali.
Al momento dirigo il Festival Internacional de Jazz el Tambo che tiene tutti gli anni a Punta del Este in Uruguay.
Una giornata tipica di Paquito senza pentagramma?
Quando non suono mi piace viaggiare, andare a pranzo fuori e dedicarmi alla mia passione per le automobili vecchie. Ne possiedo tre e non sono come quelle che circolano a Cuba, le mie sono tutte con pezzi originali: ho una Chevrolet Bel Air del 1957, un Porsche del 1998, un MG inglese del 1952. Adesso non posso viaggiare molto perchè l’Orchestra Sinfonica Nazionale mi ha commissionato di scrivere un concerto per clarinetto, violoncello e orchestra per Yo Yo Ma e debbo consegnare tutto entro la fine dell’anno.
Concludiamo con il tuo ultimo progetto e la prossima novità.
L’ultimo album pubblicato è «Paquito & Manzanero», un mix di jazz e bolero con il grande compositore messicano Armando Manzanero, l’autore più prolifico che esista di bolero tanto che non si sa quanti pezzi abbia scritto finora; il disco l’ho registrato in quintetto e di cui fanno parte anche Antonio Sanchez alla batteria e Diego Urcola alla tromba. Il prossimo cd invece si tratta di una selezione di pezzi che pubblicherò con il titolo «Paquito Sinfonico» realizzato con l’orchestra Sinfonica Nazionale del Messico con musica mia e di Daniel Freiberg, un argentino che vive qui a New York. Come sempre le sfumature jazz e i ritmi latinos non mancano. Prima di salutarci voglio ringraziare te (e Musica Jazz) per essere riuscito a rispolverare e a farmi rivivere con la tua professionalità tanti passaggi importanti della mia vita e della mia carriera che in parte avevo dimenticato, un buon esercizio per la memoria. Hasta pronto!
Gian Franco Grilli
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