ALESSANDRO SCALA, hard bop con nova Bossa Mossa
Il sassofonista emiliano romagnolo Alessandro Scala rispolvera “Bossa Mossa” con Barbara Casini. In attesa di questo appuntamento al Ravenna Jazz 2020 “Reloaded” (30 luglio, Rocca Brancaleone) Gian Franco Grilli l’ha raggiunto per ritornare su questo curioso progetto e per scoprire il suo trentennale percorso artistico.
L’Italia ha diverse decine di validissimi sassofonisti jazz, per cui fare una classifica dei più bravi è sicuramente un esercizio tutt’altro che imparziale e molto complicato. Restringendo il campo di indagine all’Emilia Romagna non abbiamo dubbi nel riconoscere tra i principali protagonisti delle ance il ravennate Alessandro Scala. Autodidatta, inizia da bambino con il clarinetto, poi passa al contralto ma saranno le sonorità afro-americane del r&b, soul e jazz a fargli imbracciare il sax tenore con il quale, ma non solo, da circa trent’anni si muove senza sosta sulle rotaie del jazz, e spesso in compagnia di artisti di prestigio internazionale, mentre sul binario parallelo ha maturato esperienze con protagonisti indiscussi della musica pop, rock e sudamericana. Quattro dischi all’attivo da leader, il quinto all’orizzonte, ma lo spunto per questa chiacchierata con il Nostro è la riproposta all’interno del cartellone di Ravenna Jazz 2020 del progetto Bossa Mossa. L’elegante tocco jazzistico di Scala per una notte si colora di brazilian groove per raccontare in un dialogo serrato con la bravissima e sapiente cantante e chitarrista Barbara Casini, special guest della serata, alcune delle pagine immortali della bossa nova e di samba jazz. Un incontro tra stilemi jazz e ritmi brasiliani che permetterà di rileggere in modo rinnovato le preziosissime perle della bossa nova, miniera d’oro della musica carioca. Il progetto infatti ci riporterà in quel laboratorio di ardimenti ritmici e armonici che diedero vita, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, al movimento della bossa nova grazie al fondamentale contributo del pianista-compositore Antonio Carlos Jobim, autore di canzoni immortali tra cui Desafinado, Samba de uma nota só, Corcovado, The Girl from Ipanema, successi mondiali incisi e interpretati nel corso degli anni in modo trasversale e da artisti di tutto il mondo ancora oggi. Successi sussurrati a voce bassa e con ritmo ondeggiante almeno una volta da tutti, tranne, forse, Maria Teresa di Calcutta. In attesa di questa nuova “incursione” carioca (giovedì 30 luglio 2020) nella magnifica cornice della Rocca Brancaleone di Ravenna, ci siamo fatti raccontare dal sassofonista romagnolo sia qualche anticipazione sulle musiche in programma che alcune fasi importanti della sua carriera.
Brazilian groove cioè Bossa Mossa, progetto che viene dal passato. Quando dici bossa si intuisce dove vai a parare, mentre la Mossa in che direzione va?
Bossa Mossa è un giro di parole che ho dato a una mia composizione di qualche anno fa che era anche la title track del cd omonimo. A quel nome sono particolarmente legato tanto da farne poi un quartetto per suonare quelle musiche. Con Barbara Casini al Ravenna Jazz proporremo una serata dedicata soprattutto a Antonio Carlo Jobim, ma Barbara vorrà certamente integrare il programma con brani di altri artisti brasiliani che lei conosce a menadito come pochi in Italia. Il concerto ruota però attorno alla figura di Tom Jobim.
Il Jobim più conosciuto con i classici Desafinado, Garota de Ipanema o Samba de uma nota só, cioè composizioni che sono diventate poi dei veri inni della Bossa Nova anche grazie al tenorista Stan Getz, il quale con un paio di dischi aprì il mercato statunitense ai musicisti brasiliani e con un album in particolare, «Getz/Gilberto feat. A.C. Jobim», fece da apripista nel portare il binomio jazz-musica brasiliana al pubblico europeo e mondiale. Sono previste anche opere di minor successo ma seducenti come Falando de amor, tanto per citarne uno, di Jobim?
Quelle canzoni che hai citato sono imprescindibili, poi sempre di quel periodo faremo brani che con il tempo hanno avuto fortuna ma non così esagerata come The Girl of Ipanema, potrei dire A Felicidade, il primo che mi viene in mente.
Oltre a interpretare Jobim immagino che proporrai qualcosa anche di «Bossa Mossa», uno dei tuoi primi album che tra l’altro includeva temi di latin in stile anni Sessanta alla Mongo Santamaria, o con sfumature di boogaloo se penso a Crilù, oppure accenti di funky jazz dominanti in Alex Groove con evidenti richiami a Michael Brecker. Un repertorio molto swingante, ritmato ma poco incline alla ballad o sbaglio?
Vero, ma diciamo che amo molto i linguaggi del passato, hard bop, be-bop e mi piace fraseggiare in modo molto ritmato come hai rilevato giustamente; adoro tantissimo la musica con un certo groove, che può essere il post bop, nu-jazz , il jazz funk e anche le espressioni latine più importanti come la bossa nova, musiche con quei colori e sapori in grado di creare atmosfere particolari, però sono portato a suonare anche latin più incalzante.
Quando hai deciso che volevi diventare sassofonista jazz e in particolare tenorista? E quali sono i motivi o le qualità che ti hanno attratto del sax tenore: la virilità, la forza, la vigorosità, quella voce che sembra parlare, gridare e sussurrare o cos’altro? E con quale marca di sassofoni preferisci suonare?
Intanto ci tengo a specificare che suono e amo moltissimo anche il soprano che mi consente di ottenere altre sonorità, e per anni ho suonato anche il sax baritono ma negli ultimi tempi l’ho abbandonato. Il tenore mi ha attratto per le cose che hai appena elencato, eppoi per il suono e il ruolo che ha rivestito nella storia del jazz e delle musiche afroamericane moderne, per le possibilità espressive, dal r&b al jazz, poi per il fascino esercitato dai grandi tenoristi degli anni Cinquanta e Sessanta. Ovviamente ogni tipo di sassofono ha un campionario di possibilità, di colori, di dinamiche, ma credo che il tenore si identifichi meglio e in modo più completo con la storia moderna del jazz. E per queste considerazioni, per il tipo di voce e per le vibrazioni che mi trasmette è quello che mi appartiene di più rispetto a contralto, baritono e anche al soprano, che comunque adoro. Come adoro i Selmer Mark VI e Balanced e prediligo bocchini in ebanite della Otto Link.
Possiamo aggiungere che il tenore ti piace anche per la sua cantabilità e quindi ti permette di trasformarti in cantante?
Hai colto proprio nel segno poiché mi permette di esprimere quello che non potrei fare con le mie corde vocali.
Facciamo un salto ancora più indietro nel tempo per capire come, quando e con quale strumento è iniziata la tua formazione musicale: hai fatto studi accademici, corsi di jazz in conservatorio o presso istituti equivalenti? Eppoi, essendo cresciuto nella patria del “liscio”, sei stato contaminato in qualche modo dalle sonorità da balera, o hai schivato quel mondo dov’era facile trovare immagini di clarinettisti e contraltisti con il fiaschetto sottobraccio?
Sono musicista autodidatta per quanto riguarda il percorso jazz, ma il mio primissimo strumento è stato il clarinetto che, se vogliamo dirla tutta, mi è stato “imposto” poiché a suo tempo nell’ambiente si sosteneva che per studiare il sassofono era bene arrivarci dopo studi di clarinetto. Così per alcuni anni ho seguito corsi di tipo classico con il clarinetto e a quattordici anni ho intrapreso da il sassofono abbandonando il clarinetto. Ho incominciato con il contralto perché ero molto attratto da blues, r&b e soprattuto dal jazz, musica che mi giungeva un po’ strana ma allo stesso tempo mi piaceva orecchiando le prove del trio di un chitarrista jazz di fronte a casa mia. Riguardo alla seconda parte della domanda, un po’ divertente (ride!) il contesto era proprio quello che hai tratteggiato e infatti molti strumentisti sono partiti e hanno sviluppato la musica in quel modo.
Con quella musica strana in testa apparivi forse un po’ strano ad amici o patiti del “dài de velzer e mazurka”, e che forse non mancavano neanche nell’ambiente che frequentavi: è così?
Io vivevo quell’ambiente ma alla mia maniera, anche se ammetto di aver vissuto vicinissimo al folklore, come giustamente hai messo in evidenza. Dico questo perché da bambino mi trovavo spesso nelle balere con i miei genitori ad ascoltare i big della musica folkloristica romagnola e in particolare mio padre seguiva Ivano Nicolucci, che aveva lavorato con Secondo Casadei prima di fondare una propria orchestra, La Vera Romagna. Questo anche per il fatto che Nicolucci era carissimo amico di mio padre e tantissime volte siamo andati nella sua casa di Predappio conoscendo a sua volta molti di quegli orchestrali da balera. Comunque i miei primi passi sul percorso dell’improvvisazione li ho mossi sul repertorio di blues, r&b e soul.
Hai fatto esperienze anche con qualche band nostrana orientata agli stili afroamericani ballabili o anche di rock-pop, orchestre che per molti giovani strumentisti sono state delle piccole nave-scuola?
Non ho fatto tour interi ma ho suonato diverse volte con Andrea Mingardi, e sono d’accordo sul fatto che anche lì si impara molto a fare musica; poi ho lavorato in ambiente pop, per esempio con Antonella Ruggiero, con l’orchestra dello spettacolo televisivo Zelig; con Mario Biondi fin dai suoi inizi quando era ancora sconosciuto e ho poi inciso un brano nel suo album «Due». Come si evince, il mio percorso musicale è un po’ variegato, e in parallelo alle diverse esperienze ho sempre curato progetti musicali basati su mie composizioni, non trascurando ovviamente standard o evergreen internazionali di jazz e affini, come nel caso della bossa nova.
Il tuo racconto conferma che soltanto di jazz non si vive se non sei una delle poche star italiane, star che hanno agende fittissime in Italia e all’estero perché attraggono tanta gente. Ciò detto bisogna anche spiegare che costoro hanno però cachet imponenti che si mangiano più fette della torta messa a disposizione dai budget degli organizzatori. Quindi, è una situazione molto sbilanciata, e ulteriormente aggravata dalla pandemia e che in ogni modo sarebbe giusto riequilibrare l’insieme delle proposte per garantire un minimo a tutti: è così?
Purtroppo sì, ma anche prima della devastante crisi causata dal Covid-19 soltanto con concerti dei miei gruppi di jazz non riuscivo a sbarcare il lunario e pertanto si è costretti ad arrangiarsi su più fronti. In Italia, ma non so se altrove è diverso, si dà poco spazio nei festival o nei vari cartelloni a nuove proposte, a “nuove”, diciamo, leve di jazzisti. I festival legittimamente vogliono garantirsi un certo numero di presenze e quindi puntano su nomi blasonati che richiamano pubblico. Questo però avviene anche in altri contesti.
Va fatta un battaglia politica e culturale, non c’è altra strada ma… intanto torniamo a noi per parlare ancora di Jobim, artista che è stato omaggiato brillantemente nel 2015 dal sax tenore di Harry Allen con l’affascinante «Something about Jobim». Se lo conosci, dimmi cosa ne pensi?
Tutto il bene possibile perché ho avuto l’opportunità di duettare con lui in una serata e quindi confermo che si tratta di un grandissimo sassofonista, purtroppo conosciuto solo dagli addetti ai lavori. Allen ha un linguaggio ben mirato e influenzato molto dai grandi Maestri del passato, soprattutto direi dai tenoristi più lirici, melodici. Credo che non vedrai mai Harry suonare soul, funky jazz o addirittura avant-garde.
A parte Getz e Allen, entrambi statunitensi, che in misura diversa hanno fatto una bella immersione nella musica brasiliana con tonalità jazzistiche, a cui aggiungo l’argentino-brasiliano Hector “Costita” Bisignani (special guest del Francesca Ajimar quartet in «Estrada do Sol», Abeat records) ti risultano dei sassofonisti brasiliani di una certa notorietà internazionale? Intendo dire se il Brasile ha un equivalente di Gato Barbieri?
Bellissima domandona da cento milioni di dollari: sinceramente mi cogli impreparato. Oltre ai tre che hai ricordato e a cui aggiungerei sia Coleman Hawkins, con il suo magnifico e incredibile ellepì «Desafinado», e sia Cannonball Adderley sempre su quel versante, io non conosco sassofonisti brasiliani e internazionali che abbiano indagato quelle sonorità e che si siano cimentati con la bossa nova. Magari ci sono, e pure bravi, però al momento non ne so proprio nulla. Forse è anche un buon motivo per fare qualche ricerca. Comunque Stan Getz ha lasciato un’impronta indelebile, unica, ogni suo solo sembrava una magia.
Mi risulta invece che tra le tue numerose collaborazioni c’è anche la brasiliana Rosalia De Souza?
L’avevo dimenticato, in effetti ho lavorato tanti anni accompagnando Rosalia con il gruppo Jazz a la Mode, ma l’esplosione di questa ottima vocalist è avvenuta con il dj produttore Nicola Conte che è stato il suo vero trampolino di lancio. Da tempo la De Souza vive a Lecce.
Prima di dimenticarcene, parliamo dei tuoi dischi: quanti ne hai registrati a tuo nome? E hai qualcosa in pentola che bolle?
Come leader sono titolare di quattro album tra cui «Bossa Mossa», «Viaggio Stellare» e «Groove Island» con un ospite speciale come il grande trombettista Flavio Boltro; il quinto album comincio a registrarlo dopo l’estate e special guest l’ottima tromba di Giovanni Falzone. A questi lavori aggiungo che ho collaborato a diverse produzioni in collettivi: ho inciso dischi con Sam Paglia, tre dischi con GB Project di cui uno (feat. Simone Zanchini), poi un album con Organic Vibe («Walking in the city»), uno con Jazz à La Mode e con questo trio ho avuto ospite anche l’indimenticabile Marco Tamburini, trombettista che ci ha lasciati troppo presto. In pentola c’é, come ho citato poc’anzi, il quinto disco e poi sto preparando anche qualcosa con il trio.
Quali musiche e musicisti stai ascoltando in questo periodo? E tra i sassofonisti del panorama mondiale e nazionale chi stai seguendo in modo particolare?
Io ascolto di tutto, ma la preferenza è riservata al jazz nelle sue varie declinazioni. Il sassofonista che in questa fase ascolto maggiormente è Hank Mobley, ma potrei dirti anche Coltrane che ogni tanto mi aiuta con la sua dimensione spirituale e con il suono, Sonny Rollins, Lester Young, un po’ meno Coleman Hawkins anche se mi piaceva moltissimo. Invece di quelli più attuali e moderni mi capita spesso di ascoltare Joshua Redman, Ravi Coltrane, Marcus Strickland, Brandford Marsalis e tantissimi altri trasversali. Naturalmente tra quelli che attraggono di più i miei colleghi italiani da un po’ di tempo ci metto Mark Turner per la sua costruzione, David Binney per il modo di suonare, cerebrale molto difficile; Chris Potter, strepitosa tecnica, che però a mio modestissimo avviso questo lato a volte va a discapito della espressività, del sentimento, del messaggio. Degli italiani che mi piace ascoltare uno è Max Ionata molto legato alla tradizione e con un bel mood di suonare; poi un altro che prediligo è Emanuele Cisi, ma anche Tonolo. Tra i contraltisti mi piace molto Rosario Giuliani, super tecnico.
A tal proposito, io non credo che possedere una tecnica vertiginosa sia la cosa più importante per un artista; aiuta certamente, ma evidentemente non la pensano così tanti giovani tecnicamente ineccepibili, talentuosi, ma che si trovano a condividere lo stesso modo di suonare, si assomigliano nella voce e nell’improvvisazione, e si rischia di confonderli se non li hai di fronte. Cosa, questa, che a mio avviso non succedeva ascoltando John Coltrane, Rollins, Young oppure e in modo inequivocabile Gato Barbieri; e sulla stessa scia ci metto Javier Girotto, tanto per citare uno che può piacere o meno, ma che riconosciamo tutti fra mille ance. Te la senti di esporti in merito o preferisci astenerti?
Concordo con la tua opinione e penso anch’io che sia così. Lavorando in quel modo iper tecnicistico credo vengano penalizzati il cuore e l’anima che debbono sostenere la musica. Non mi permetto affatto di dare giudizi anche perché conosco quasi tutti quei dotatissimi giovani, tuttavia io, che sono della generazione di mezzo, ho avuto un approccio diverso; ho maturato un mio percorso – e in una terra come la Romagna, terra molto distante dalla cultura musicale nata a New Orleans – ma sempre con un occhio di riguardo alla ricerca del suono, il più possibile personale, nel tentativo di imbastire una mia linea, sperando ovviamente di farmi riconoscere. In sintesi, se vuoi il mio parere: è meglio suonare meno note ma mettendoci più cuore per comunicare con la musica il proprio messaggio. E per farmi capire ti faccio un esempio con dei tenoristi del passato: Al Cohn, Ben Wester, Don Alias o Dexter Gordon con quattro note ti stendevano. Con questo non voglio essere frainteso, perché c’è anche chi fa tantissime note e con tanto cuore, basti prendere Charlie Parker o musicisti più o meno come lui che facevano centinaia di note in poche battute ma ricchissime di cuore e intensità. Qui viene fuori lo spessore vero dell’artista. Comunque io ritengo che fare musica jazz non è una competizione da Formula 1, un discorso che riguarda non solo i sassofonisti, ma tutti i musicisti jazz.
Per concludere il colloquio vogliamo ricordare un po’ del repertorio che presenterai assieme a Barbara Casini al festival Ravenna Jazz?
Certamente: la serata sarà pilotata da Barbara Casini (importante ambasciatrice della musica brasiliana in Italia) mettendo in repertorio i classici che abbiamo citato all’inizio firmati da Jobim come Desafinado, Samba de uma nota só, Corcovado ma anche Fotografia, Saudade, Vivo Sonhando, Otra Vez, Águas De Março e senza escludere materiale di altri grandi compositori della musica popolare brasiliana. Naturalmente con l’aggiunta di alcuni nostri brani originali.
Gian Franco Grilli