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ONA IREO, il buon cammino della GUNA Band

5. agosto 2021 – 18:45No Comment
ONA IREO, il buon cammino della GUNA Band

La formazione del percussionista siciliano “Guna” Sergio Cammalleri riassume nell’album ONA IREO il frutto di oltre trent’anni di ricerca, sperimentazione musicale e studi tra percussioni e spiritualità. Hanno collaborato a questa autoproduzione talentuosi musicisti internazionali tra cui nomi del calibro di Carlos D’l Puerto Sr. (ex-Irakere) e Michael Viñas (Seis del Solar- Rubén Blades). Di questo e altro si parla nell’intervista raccolta da Gian Franco Grilli

 

ONA IREO, il buon cammino della Guna Band

di Gian Franco Grilli

La formazione del percussionista siciliano Sergio “Guna” Cammalleri riassume in un album il frutto di oltre trent’anni di ricerca, sperimentazione musicale e studi tra percussioni e spiritualità. Se ne parla in questa intervista.

Nel canto Yoruba di Guna Cammalleri si riconosce la grande passione e la profonda attenzione per il mondo ancestrale che ruota attorno ai sincretismi religiosi afrocubani e afrobrasiliani. Ne troviamo prova e conferma nell’album ONA IREO, album freschissimo di stampa con una autoproduzione firmata e condivisa con Orazio Maugeri, Michael Viñas e Filippo Rizzo. E’ una proposta musicale frizzante frutto di lunghi anni di attività e ricerche del musicista palermitano Sergio “Guna” Cammalleri e della sua proficua collaborazione con Orazio Maugeri, coautore delle composizioni e degli arrangiamenti, e ottimo solista di questo brillantissimo progetto che annovera anche l’eccellente batterista Marcello Pellitteri e la partecipazione di talentuosi musicisti di fama mondiale come il contrabbassista cubano Carlos D’l Puerto Sr.(ex-Irakere), il bassista statunitense Michael Viñas (Seis del Solar di Ruben Blades), il percussionista brasiliano Zé Carlos Guratti e altri ancora. Finalmente abbiamo tra le mani questo lavoro annunciato più volte sulle riviste specializzate e atteso dal molto tempo. Ed eccoci di fronte ad un impatto forte per questa modalità di combinare jazz e black music, spiritualità con ritmi e strumenti delle tradizioni cubane e brasiliane. Una maniera abbastanza insolita (e se vogliamo anche un po’ azzardata nel toccare certi temi) di rileggere e interpretare in chiave moderna parti significative della musica rituale yoruba senza alcuna pretesa intellettualistica, ma con un approccio brillante, brioso, dove la corporeità e la fisicità spiccano su tutto. Abbiamo raggiunto il bandleader siciliano per farci raccontare in maniera dettagliata il nuovo progetto e allo stesso tempo ripercorrere fasi importanti del suo cammino artistico.

 

Sergio, perché questo titolo, «Ona Ireo», ossia buon viaggio? Ma cosa significa esattamente per te?

Ha diversi significati affini tra loro, come buon cammino, buon viaggio, è una maniera di fare le cose. Sappiamo che facendo un progetto si va incontro a pro e contro, per quanto riguarda registrazioni, formazione, eccetera, e questo fa parte del cammino che va avanti. In   questa produzione di cose bisogna puntare alla ricerca del buon cammino , cioè fare in modo di muoversi in una certa direzione per realizzare e realizzarsi . Ona sta per cammino e Ireo per buono, cammino buono.

Dal punto di vista spirituale cosa rappresenta?

Significa avere una guida interna che tutti possediamo e che ci possa portare a fare i passi giusti, equilibrati e sotto la protezione di una entità superiore che favorisca il superamento di certi ostacoli o imprevisti che il destino mette davanti.

Nello specifico, questa divinità da invocare è Elegguá, orisha della santeria cubana, è giusto?

Esattamente, è l’orisha che apre e chiude il percorso in questa dimensione spirituale, e così lo è per il nostro cammino.

Parlando del disco, quanto di sacro e quanto di profano? Lo dico considerando che non avete inserito la triade batá, tamburi che hanno la funzione evocativa delle divinità e servono cioè a “chiamare” le entità spirituali, gli Orisha, e per ogni divinità c’è un proprio ritmo, toque o canto, è così?

Perfetto, la nostra però è una dimensione estetica, moderna, profana come dici tu. In Canto Obatalà ci sono tre ritmi: lambà, del Mali, anche se originariamente senegalese, poi il reggae, anch’esso africano, come lo è in origine pure l’olodum bahiano. Per completare il discorso su questo brano, la seconda parte diventa songo, ovviamente cubano, reggae e sempre oludum. Questi tre ritmi sono stati combinati nell’elaborazione pezzo secondo i nostri codici interpretativi. Considera che l’olodum andrebbe eseguito con una grossa scuola di batucada (almeno di trenta elementi), e per comprensibili ragioni noi abbiamo concentrato il tutto affidandoci solo a due percussionisti in studio, ossia il sottoscritto e Guratti..

Possiamo dire che in questa produzione il tuo ruolo solistico di percussionista è un po’ sacrificato per assumere le vesti del timoniere della band in combinata con Orazio Maugeri, il quale però si ritaglia un paio di bellissimi soli elettrizzanti imbracciando e intrecciando alto sax e tenore, che immagino con una sovraincisione: è andata così?

Esatto, concordo; infatti Orazio, ripeto, co-produttore del progetto, è anche l’autore di quegli assolo che hai evidenziato sia all’alto che al tenore. Poi, parlando di fiati, abbiamo anche Andrea Priola alla tromba e Sebastiano Insana al trombone.

Sono 30 minuti di musica per sette composizioni che scorrono, a mio avviso e in senso buono, troppo velocemente con ritmi sostenuti e uno spirito che richiama l’allegria e la ballabilità (vedi Michael’Cha) o l’atmosfera carnevalesca santiaguera. Il titolo dell’album e il canto yoruba condizionano forse erroneamente il nostro immaginario associando il progetto esclusivamente a Cuba o Brasile. E quindi se è così, la domanda che sto per farti sulla mancanza di accenni intimistici, romantici del bolero, del bolero feeling, o del danzón ha senso, ma in caso contrario no. Spiegaci allora come è nato il progetto e se avete altro materiale nel cassetto.

In effetti il tuo dubbio è lecito perché c’è un po’ di Cuba, di Brasile, ma non soltanto e poi nei parliamo. Questo è la prima parte del materiale pronto che, come hai giustamente rilevato, ha privilegiato ritmi, un mix tra afrobeat, conga, cha cha combinati col jazz, r&b, reggeae, soul,. Una sintesi delle nostre sperimentazioni, un lavoro con una impostazione che guarda un po’ ai primissimi geniali Irakere (con tutte le rispettive differenze, per carità non facciamo comparazioni!). Però siamo riusciti a creare un’atmosfera in cui ci si è ritrovato evidentemente anche un talento come Carlos D’l Puerto Sr., uno dei fondatori di quella famosissima orchestra, da convincerlo a collaborare attivamente al progetto. Detto questo, nel cassetto abbiamo ben altro, tante per citarne alcuni, un pezzo di Michael Viñas (Room 238) e anche un brano di David Murray, Ballad for the Blackman che verrà declinato a bolero. Farà parte di un’altra produzione che non sarà limitata alla cultura yoruba ma sconfinerà nel latin jazz, che abbiamo anche qui grazie alla concessione di Micbael Viñas di inserire come regalo un bonus track di livello: l’efficasissimo Michael’s Cha, e ciò anche per ricordare che la Guna Band ha sempre navigato nel latin jazz

Per ovvie questioni di budget osservo una lacuna, cioè non hai potuto permetterti note di copertina più esaustive con credits particolareggiati. Trattandosi di musiche, linguaggi e di strumenti spesso impiegati poco conosciuti anche agli addetti, una piccola “guida all’ascolto” segnalando chi e cosa suona, sarebbe di grande utilità. Cosa ne pensi?

Osservazione corretta e allora proviamo a migliorarci. In tutti i brani il basso è suonato da Carlos D’l Puerto Sr. . E questo avviene anche nella composizione del bassista Viñas (Michael’s Cha arrangiata assieme a Joe Mannozzi) che invece nel suo pezzo suona le tastiere e il fill dei timbales. Inoltre, in questo pezzo il batterista è Diego Lopez, mentre Marcello Pellitteri è il batterista di tutto il progetto.

Procediamo con altri: ad esempio, fa capolino, velocemente, la flautista Connie Grossman.

Esatto, Connie partecipa con un sintetico intervento all’incisione di Awo Lodun Ni Lefun (traccia 6) approfittando del fatto che si trovava nello studio di Micbael Viñas per un’altra registrazione. Poi Zé Carlos Guratti, percussionista brasiliano che ha contribuito nell’olodum con me in Canto Obatalà (traccia 3) e anche nella title track Ona Ireo, interviene quando il pezzo Awo Lodun Ni Lefun prende l’onda verdeoro.

Le tracce sono registrate in diversi studi sparsi nel pianeta, ma immagino che sia stata Palermo dove si è registrato di più: è giusto?

In effetti è andata così. A Palermo abbiamo registrato io, Maugeri, Insana, Priola, ma anche Zé Carlos Guratti , Marcello Pellitteri mentre all’estero lo hanno fatto Diego Lopez, Michael Vinas e Carlos D’l Puerto Sr..

Parlando dei canti di santería così modernizzati hai richiamato poco fa lo storico e insuperabile gruppo Irakere come modello cui vi siete ispirati se non altro nel fondere assieme stilemi diversi. Vuoi specificare meglio?

Voglio dire che questa nostra idea sonora rappresenta una maniera di fruire di questi canti che tutti, o quasi tutti, credo conoscano almeno un pochino. Così ce li siamo arrangiati a nostro modo e in base al groove che volevamo ottenere. Noi parliamo di Yoruba Inspiration Ifà Owo L’Owo nel senso che ci siamo ispirati sia a quella tradizione spirituale africana e sia lontanamente anche a quello che fecero in modo magistrale e su dei livelli esecutivi indescrivibili i musicisti degli Irakere. Ad esempio Change Ilé Ifá (traccia 5) è un rituale che si canta quando si sposta da una stanza all’altra il fondamento di Orula. Questo fatto io lo interpreto come spostamento della tradizione, perché questa spiritualità Yoruba con il culto di Ifá io so che proviene dall’antico Egitto…

… ah, e non proviene dalla Nigeria, come – se non erro- molti studi su transculturazione e origine dei sincretismi afrocubani e afrobrasiliani rimandano alla Nigeria? Ma non addentriamoci troppo poiché si rischia di allontanarci dall’obiettivo che ci siamo prefissi.

Per quello che ho studiato, tutto ciò nasce dall’antico Egitto poi avviene una transumanza verso la Nigeria, dove si radica molto profondamente e successivamente si sposta nuovamente per insediarsi nei Caraibi e in Sudamerica attraverso la tratta degli schiavi.

Il tuo avvicinamento ai culti africani e alle musiche rituali afrocubane e dintorni come, quando e con chi è avvenuto?

Tutto è accaduto a seguito dei miei studi come percussionista che operava in Sicilia e da qui cercai di scoprire le matrici, le origini: quindi realizzai viaggi in Africa, a Cuba e conseguentemente cominciai a delineare meglio quel bagaglio culturale che mi portava a dar luce alla ricerca che avevo in mente. D’altro canto molta percussione è legata alla spiritualità e quindi ero e sono affascinato da tutta la cultura ancestrale di comunicazione del tamburo.

Ma quanto c’è di spirituale nel tuo personale binomio percussione-canti religiosi?

Io ho sempre fatto ricerche con una dimensione spirituale e ancora prima di sondare il lato africano sono stato anche India e il mio nome Guna me l’hanno dato proprio lì e mi è rimasto come nome d’arte.

Esattamente cosa significa Guna?

Vuol dire beatitudine, sapienza e ricchezza spirituale, un mix che raggruppa caratteristiche dell’individuo e si collega alla positività, e in fondo al buon cammino di cui abbiamo già fatto cenno per la santeria. Successivamente andai a Cuba, in Nigeria, per lo strettissimo intreccio percussioni e spiritualità. Così a Cuba ho maturato dei percorsi spirituali particolari oltre che musicali a partire dal 1984, il primo viaggio nell’Isla. Tornando invece al tema da cui eravamo partiti, mi piace dire che i brani di «Ona Ireo» sono canti ancestrali legati alla percussione e ritualità sui quiali io e Maugeri abbiamo creato delle composizioni e gli arrangiamenti.

Parlaci dei tuoi primissimi passi musicali: li hai mossi con le percussioni o con altri strumenti?

Come per tanti è andata proprio così: non avendo strumenti, percuotevo le pentole e tutto quello che mi capitava a tiro. Poi ho avuto una piccola batteria e più avanti mi sono comprato le congas e così via.

Hai frequentato studi di percussione classica o in qualche scuola orientata verso una cultura, o addirittura sei un autodidatta?

Diciamo che mi sono fatto da solo, ho seguito i grandi maestri tra cui Ray Mantilla, Ricardo “Papín”, leader del quartetto percussionistico Los Papines, con i quali, intendo Ray e Papin, si era instaurato un rapporto più che amichevole ed ero accolto come un membro delle loro famiglie. Gente davvero molto generosa e umile.

Nella tua carriera hai lavorato di più con gruppi di musiche latin o di jazz?

Direi che si equivalgono, poiché in tanti anni ho maturato esperienze su più fronti e anche diversi da quei due citati. Chiaramente va detto che la percussione però si combina meglio con certi stili latinoamericani e quindi essendo stato anche uno dei primi in Sicilia a praticare queste sonorità non ho avuto grandi difficoltà a lavorare. Inoltre questa posizione mi ha consentito anche di aiutare tanti giovani a incamminarsi su questo versante e con ottimi risultati.

Fermiamoci ancora un po’ sul mondo latin. Quali sono stati i tuoi primi ascolti musicali in assoluto che ti hanno influenzato?

Intanto ricordiamo che io sono nato nel 1961 e quindi per capire i periodi di cui stiamo parlando ricordo che da ragazzino ascoltavo Lp di Perez Prado Pantaleon, che era il cugino di Damaso, poi in seguito orchestre come Gran Combo, Oscar de Leon e Eumir Deodato. Comunque a tredici anni io ascoltavo Chick Corea, dove c’era Airto Moreira, che poi nel tempo ho conosciuto e con il quale ho collaborato. Tieni presente che io assieme a Mimmo Cafiero in quegli anni bazzicavamo già con le formazioni di Enzo Randisi, vibrafonista e pianista, che faceva jazz ma anche bossanova, samba e ritmi cubani. Invece il gruppo Santana, quello dell’epoca Woodstock, cui facevi cenni prima dell’intervista, non l’ho vissuto perché ero ancora piccolo.

Parliamo allora di jazz. Quando e come sei entrato in questo ambiente , dove, tra l’altro, le percussioni afrocubane sono sempre state un po ‘ defilate, per non dire rarissime nelle formazioni jazz in Italia.

A Palermo si vive di jazz da sempre e lo seguivo da piccolo. Io iniziai, come appena detto, con il maestro Enzo Randisi e tuttora suono in un’orchestra jazz che fa anche repertorio latin, funky eccetera. The Brass Group, che è un’istituzione diventata poi Fondazione, trattava un po’ tutto e quindi i limiti di cui parlavi riguardo percussione afro e jazz, da noi per quel che ne so non erano così marcati.

Puoi ricordarci invece un paio collaborazioni discografiche di gruppi e/o progetti di un certo peso?

Carla Bley e Steve Swallow nel disco “OJS Play Music of Carla Bley“, etichetta Watt Record con distribuzione ECM. Poi un album di brani siciliani in chiave jazz con l’Orchestra Sinfonica Siciliana. Inoltre ho collaborato a un lavoro di Peter Erskine e di Alex Acuña: nel suo brano, El madero, Alex suonava la batteria e mi invitò alle percussioni. Poi ho inciso nel primo disco di Gianni Gebbia nel 1987. Chi però volesse saperne di più e in modo cronologico sulla mia carriera consiglio di visitare la pagina http://www.jazzitalia.net/Artisti/SergioCammalleri.asp#.YQrWKZMzaSM poiché la memoria spesso è fallace.

Concludiamo questa chiacchierata ritornando sul tuo divertente album. A parte il budget, non hai mai pensato che sarebbe stato utilissimo per un progetto specifico e cantato in una lingua o dialetto estranei agli occidentali, e non solo, farlo accompagnare da note di copertina con testi e traduzione di quei canti?

Francamente non mi sono posto il problema perché la lingua yoruba è parlata da circa 400 milioni di persone al mondo e quindi presentarmi con un libretto mi sembrava troppo altezzoso, anche perché in Sudamerica la lingua yoruba è conosciuta da molti.

Sergio, su questa tua affermazione consentimi di dubitare perché personalmente ho appurato che diversi artisti che “cantano” gli Orisha, la Regla de Ocha non dominano affatto quell’idioma e tenendo conto che con la transculturazione si è modificato subendo aggiornamenti nel tempo e da un luogo all’altro, e da un gruppo etnico all’altro visto diversamente. Quindi potremmo parlare di coronazione di un santo, di orisha, di pataki, eccetera, ma entreremmo in un campo infinito di interpretazioni, e quindi fermiamoci qui lasciando in sospeso l’argomento. Invece diciamo ancora qualcosa del progetto sia per la ritmicità e anche per la cantabilità che scatenano quei cori e i refrain, in particolare dei brani Canto Obatalà e Michael’s Cha che, a nostro parere, dovrebbero risultare i preferiti dal pubblico italiano. Tu che ne pensi e cosa ti aspetti dall’insieme di questo lavoro?

Dipende dalle diverse sensibilità e dalle esperienze di ognuno maturate nei confronti di queste sonorità e ora rinnovate con un particolare groove. Però l’importante è averlo pubblicato; e anche se l’autoproduzione, che vuol dire nessun legame con etichette (nel bene e nel male) non ne favorirà la diffusione. Tuttavia io mi aspetto una buona risposta perché è musica che arriva all’anima, e anche grazie a quello che assieme potremo fare per raggiungere e avvicinare gente nuova. Comunque i preascolti si possono fare sul mio canale youtube o su https://gunaband.bandcamp.com/releases. Per qualsiasi ulteriore richiesta è possibile inviare una email a: gunasergiocammalleri@gmail.com.

Gian Franco Grilli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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