GUSTAVO OVALLES: dal “Sistema” Abreu al latin jazz con quitiplá
Tranquillo, solare, ambasciatore di musiche venezuelane, “console” di ritmi afrocubani, Gustavo Ovalles è oggi uno dei multipercussionisti più richiesti sia nel latin jazz che nei progetti di world music. «Sonidos del Orinoco» è il titolo della sua produzione più recente. L’abbiamo intervistato in occasione di una tournée con il pianista cubano Omar Sosa. Ecco cosa ci ha raccontato. L’intervista di Gian Franco Grilli è condivisibile esclusivamente con il mensile MUSICA JAZZ (22Publishing).
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Tranquillo, solare, ambasciatore di musiche venezuelane, “console” di ritmi afrocubani, Gustavo Ovalles è oggi uno dei multipercussionisti più richiesti sia nel latin jazz che nei progetti di world music. Da Caracas, dove è nato e cresciuto, si trasferisce in Francia nel 1997, collabora con salseros e jazzisti latin e subito si fa apprezzare per l’originalità e il gusto nel combinare le tradizioni ritmiche afrocaraibiche, il quitiplá e i linguaggi delle musiche del mondo. Omar Sosa, eclettico pianista e percussionista cubano, intuendone le notevoli capacità di colorare le musiche lo chiama a collaborare nelle sue produzioni. E’ amore a prima vista, e tra i due artisti, entrambi adepti della “santería”, nasce un’intesa musicale perfetta, tanto che il jazzista cubano preferisce Gustavo ai numerosi percussionisti in circolazione (tra cui molti cubani) per farsi accompagnare nelle tournée mondiali. E in una di queste tappe abbiamo intervistato l’artista venezuelano.
Puoi mostrarci la tua carta d’identità?
Mi chiamo Gustavo Adolfo Ovalles Palacios e sono nato a Caracas il 19 dicembre 1967. La musica è entrata nella mia vita grazie a mio padre che era un fanatico di musica cubana e impazziva per la Sonora Matancera, inoltre aveva un’orchestrina dove suonava le maracas. A sei anni incominciai a suonare i bongos (e non le congas o tumbadoras, troppo grandi per me all’epoca) con l’orchestra di mio fratello: ci esibivamo nei bar, nelle discoteche o nelle feste di matrimonio con un repertorio di musica cubana, venezuelana e altri ritmi dell’America Latina. Quindi da ragazzino ho viaggiato moltissimo come musicista, e poiché si suonava di sera fino a tardi ti puoi ben immaginare la stanchezza che avevo il mattino successivo. Così a scuola ero un disastro, andavo malissimo. Migliorai un po’ da grandicello, ma non tanto da permettermi di diplomarmi, e questo mancato traguardo lo sento molto.
Quando cominciasti a prendere seriamente la strada della musica?
A un certo punto della mia vita mi trovai a un bivio: amavo la musica ma anche lo sport, mi piacevano moltissimo basket e pallavolo, e allora a diciassette anni decisi per il mondo musicale iniziando gli studi al Conservatorio dentro El Sistema, l’importante scuola del Venezuela fondata dal maestro José Abreu nel 1975 da cui sono sgorgate le Orquestas Juveniles e figure importanti come Gustavo Dudamel, oggi direttore di livello mondiale. La mia formazione quindi è avvenuta in quell’orchestra giovanile e allo stesso tempo lavoravo sempre in quell’ambiente occupandomi del settore Archivio come “atrilero”, cioè il mio compito era quello di collocare la partitura sul leggio del musicista quando vi erano concerti.
Qual è stato il tuo primo strumento?
Ho studiato violoncello e piano complementare per circa sette anni.
E la percussione quando ha preso il sopravvento per il tuo futuro cammino artistico?
Le cose andarono così: l’orchestra di cui facevo parte a un certo punto venne smantellata, la trasferirono da altre parti e così decisi di cambiare strumento studiando per due anni la percussione sinfonica nella Escuela Superior de Música José Ángel Lamas con il bravissimo professor Jorge Dayú. Poi studiai e lavorai in modo approfondito e completo dentro il vasto panorama della musica venezuelana: in quel momento cominciò anche la mia carriera come ballerino nell’Università Centrale del Venezuela dove facevo parte del gruppo di danze tradizionali.
Nello specifico, quali sono le più importanti espressioni coreutiche e dove ti destreggiavi al meglio?
In Venezuela esiste un grande patrimonio di musica e danza, quel mondo che generalmente altri chiamano folklore mentre per noi è “tradizionale” e basta. Naturalmente dovetti imparare a ballare i diversi stili di joropo e tutti gli aspetti ritmici interpretati dalla percussione con i suoi diversi tamburi: culo e’ puya, cumaco, chimbangle, tambora, tambor coriano, che identificano anche diverse manifestazioni della musica tradizionale venezuelana.
Parlaci di joropo e anche del chimbangle, che se non sbaglio è alla base di un rituale sincretico bantu.
Joropo è uno stile musicale che contempla anche la danza e rappresenta un modo di fare festa e si caratterizza per essere un’espressione meticcia. In alcune parti dello joropo mi esibivo ballando mentre in altre suonavo perché c’è un interscambio tra ballerini e percussionisti. A mio avviso il percussionista che non conosce la danza non può capire le esigenze del ballerino, quindi è importante decodificare il linguaggio degli altri partners della partita. Quello che, in qualche modo, accade anche nelle varie forme di rumba cubana: chi suona il quinto o la tumbadora o il cajón deve conoscere l’idioma del ballerino rumbero per instaurare un dialogo stimolante. In sintesi, il ruolo del percussionista è ritmare in funzione della danza.
In questa ritmata controversia tra ballerino e percussionista interviene anche la voce con il canto, che nella rumba si caratterizza con il diana, cioè un attacco melismatico improvvisato, è giusto?
Esatto, scusa se non l’avevo detto prima: infatti anche il canto è importante conoscerlo come musicista per poterlo accompagnare. Quindi siamo di fronte a un triangolo che si sviluppa tra canto, tamburo e danza ed è fondamentale conoscere queste tre fasi per avere rappresentazioni di maggior qualità. Il chimbangle? Si tratta di un culto rivolto a San Benito de Palermo, un rituale del sincretismo afrovenezuelano particolarmente presente nell’area di Maracaibo.
Quante ore di studio dedicavi per apprendere questo insieme di linguaggi?
Ci tengo a specificare che io non vedo tutto ciò come un obiettivo da raggiungere come fosse un titolo di studio che si ha dopo cinque o sei anni. Per me rappresenta una forma di vita, è qualcosa di quotidiano e diciamo che lo studio e l’apprendimento non finiscono mai. Attualmente sto studiando dentro la nostra tradizione: recentemente mi sono recato nel Delta dell’Orinoco per indagare la comunità indigena poiché ho in mente un documentario, un progetto ad ampio spettro sulla musica, il canto, la danza e le varie espressioni culturali esistenti.
Anche tu da tempo non vivi più in Venezuela, è così?
Giusto, da molti anni infatti risiedo in Francia ma ogni tanto torno a Caracas per seguire la mia scuola di percussione, faccio un lavoro pedagogico. Però in questo momento la delicata situazione politica ed economica, poi la pandemia non mi permettono di dare una certa continuità e pertanto questo lavoro è fermo. Comunque quando vado faccio lezioni ai ragazzi del mio quartiere perché considero che le tradizioni di un Paese siano importantissime nella formazione dei bambini e nella costruzione dell’identità e rappresentazione del territorio. Purtroppo, va detto, i politici di molti paesi non ne hanno consapevolezza.
Hai un incarico dalle istituzioni locali?
Macché, è un lavoro comunitario autofinanziato da me per togliere dalla strada bambini e ragazzi che altrimenti potrebbero correre rischi per il loro futuro. Lo faccio gratuitamente perché mi ritengo un uomo fortunato grazie alla musica che mi ha dato l’opportunità di aprirmi un cammino verso una professione nobile. Io sto realizzando i miei sogni, tutta la mia vita si è sviluppata dentro il mondo della musica e pertanto vorrei che i bambini avessero possibilità di accedere a progetti culturali formativi nell’ambito delle nostre tradizioni, oltretutto questo patrimonio di conoscenze su musiche e danze è spendibile nel mercato internazionale poiché attrattivo per pubblici nuovi e di conseguenza gratificante per noi. Prendiamo il mio caso: le collaborazioni con Omar Sosa mi consentono di esprimermi con i linguaggi imparati durante anni di ricerca e, se ci pensi, con strumenti sconosciuti ai più…
… come il quitiplá, ad esempio, quel set di canne di bambù che porti in scena assieme ad altre percussioni, è così?
Esattamente, questo è un elemento della percussione afrovenezuelana e con lo stesso nome si identifica anche il ritmo, di origine africana, ottenuto dalle canne. Sono davvero contento che tu conosca questa manifestazione culturale, perchè moltissimi tuoi colleghi non sanno un bel nulla di questo idiofono, cioè una piccola batteria di suoni naturali e che nella nostra tradizione si sviluppa con più esecutori. Io, ovviamente, faccio una sintesi e tra l’altro va detto che il quitiplá è un oggetto molto comune in Venezuela che va oltre il significato musicale: lo si regala ai bambini perché queste canne diventano un gioco al posto di aggeggi moderni come playstation eccetera. Così i ragazzini si divertono a battere, a ritmare, e allo stesso tempo scoprono le sonorità ottenute da questo oggetto naturale mettendo in moto la creatività di ciascuno.
Come e quando è avvenuto il collegamento tra ritmi venezuelani e jazz o latin jazz?
Io mi considero un musicista tradizionale perché in tutti questi anni ho cercato di lavorare con le musiche tradizionali. Studiandole a fondo mi sono poi avvicinato a differenti stili e in questo caso alla musica afroamericana dove cerco di incorporare le mie conoscenze musicali con lo spirito e la libertà creativa che sono alla base del jazz. In questo ambito il mio primo gruppo si chiamava Valijazz: mio fratello era alla batteria e io alle percussioni (anche se ero batterista). Avevo circa diciotto anni e fin da allora spingevo per dare una precisa e originale impronta ritmica alla nostra musica con le maracas e il tambor cumaco.
Potremmo aprire una lunga parentesi percussiva ma rimandiamola ad altra occasione e per un pubblico più specifico. Parliamo invece di jazz e affini. Se escludiamo Luis Perdomo, Edward Simon, Silvano Monasterios, Otmaro Ruíz, Luisito e Roberto Quintero, cioè rappresentanti delle ultime generazioni, o in passato mi ricordo di Aldemaro Romero, il Venezuela a livello internazionale mi sembra che non abbia espresso nomi significativi e non solo in campo jazzistico, ma anche nelle musiche moderne, tranne il salsero Oscar D’Leon e pochi altri. Sei d’accordo?
A quelli citati aggiungerei il polistrumentista Gonzalo Grau, un musicista crossover, e Gerry Weil, immigrato dall’Europa, che è stato maestro di tanti giovani jazzisti. Sì, è vero, contrariamente a Cuba, Brasile, Porto Rico o Argentina, di noi si parla pochissimo tranne che per El Sistema, e credo sia dovuto al fatto che i musicisti venezuelani in generale non sono mai stati interessati a viaggiare, a stabilirsi in altri Paesi, non si caratterizzano come grandi emigranti al contrario di portoricani, cubani, brasiliani, salvo pochi artisti che sono andati a studiare negli Stati Uniti, alla Berklee o in altre scuole importanti, e poi hanno deciso di continuare a vivere là. La politica in Venezuela non ha mai aiutato e non favorisce gli artisti che vogliono andare altrove. A Caracas e dintorni, si fa per dire, il jazz è sempre stato un fenomeno elitario, seguito da gente molto benestante ma con poche conoscenze su tale arte sonora e su ciò che avviene a livello internazionale. Purtroppo da qualche anno la sempre più difficile situazione politica ed economica spinge i musicisti (oltre alle centinaia di migliaia di persone comuni) a cercare soluzioni di lavoro in altre nazioni.
Dopo quella venezuelana, quali sono le tradizioni percussive dell’America latina che hai studiato maggiormente?
Senza dubbio quella di Cuba, dove ho studiato e fatto ricerche sui ritmi più importanti e su quelli vincolati ai sincretismi anche perché appartengo alla Santería cubana. Continuo a studiare il pantheon Yoruba, i canti e le preghiere, i tambores batá usati nei riti religiosi. Possiedo anche un batá sacro, che si suona solo durante la liturgia, ma parlare di questi toques è una cosa complessa dal punto di vista ritmico: batá è una triade di tamburi, a doppia membrana, quindi sei pelli che dovrebbero essere suonate da tre percussionisti per rispettare i canoni, inoltre ogni divinità o orisha della Santería ha un toque specifico.
Chi sono stati i tuoi maestri cubani di questi bimembranofoni a forma di clessidra, possiamo dire sdoganati significativamente nel jazz dal gruppo Irakere di Chucho Valdés?
In particolare questi: Regino Jiménez Saez, purtroppo scomparso prematuramente, è stato uno dei più grandi olubatà, (suonatore di batá) di Cuba, poi Angel Bolaños, Javier Campos. Ma è stato mio insegnante anche Angà Diaz, che ci ha lasciato prestissimo, grandissimo conguero di Irakere per alcuni anni. Naturalmente con questi maestri studiavo anche altre percussioni come tambor yuka, catà, e linguaggi come la rumba eccetera eccetera. Cuba per me rappresenta un riferimento fondamentale e quando posso vi trascorro diverse settimane.
La tua inclinazione cubana mi fa venire in mente Qué linda es Cuba, la celeberrima e patriottica canzone di Eduardo Saborit simbolo di “fidelisti” di tutto il mondo come anche la rivoluzionaria Hasta Siempre Comandante di Carlos Puebla. Domanda obbligata: tu che sei cresciuto sostanzialmente dentro sistemi democratici cosa pensi della realtà politica, sociale e culturale di questa Isla caraibica socialista tanto combattuta e disprezzata dagli Usa & Co. per la sua mancanza di democrazia o pluralismo?
La realtà cubana mi affascina, Cuba ha investito molto in cultura, nello sviluppo delle tradizioni musicali, ma anche in sanità eccetera. E’ vero quello che dici e non so se potrei viverci sempre, però rifletto su alcune cose: io vengo da un quartiere di Caracas dove l’indice di mortalità è altissimo, ogni settimana vengono ammazzate ottanta persone da bande criminali, c’è una grande violenza. E quindi mi chiedo: è meglio vivere in una dittatura dove la criminalità è bassissima o in una città venezuelana dove si vive nel terrore?
Vedo nel tuo sguardo incertezze e dubbi legittimi su queste due realtà distanti ma su alcuni aspetti abbastanza vicine, ma giriamo pagina e torniamo alla musica. A parte la tradizione cubana, quali musiche caraibiche ti interessano?
Mi piace molto la musica di Porto Rico, la bomba (è come la rumba, per il dialogo che si instaura tra il tambor, il canto e la danza ), la plena e l’aguinaldo, che coltiviamo anche in Venezuela e noi facciamo un lavoro importante nella musica campesina con la decima che esprime ottimi decimistas, artefici in un battibaleno di improvvisazioni in rima, dei rapper ante litteram. Poi mi piace anche il merengue di Santo Domingo.
Ho notato che in tutta la chiacchierata non hai citato la tradizione musicale e percussiva di Trinidad & Tobago, con le bands di tamboo-bamboo (canne di bambù, cugini del quitiplà) progenitrici delle steelbands formate da steeldrum (tamburo d’acciaio), che, se non ricordo male, è forse l’unico strumento a percussione inventato nel Ventesimo secolo. Per non parlare poi del calypso che imperversò negli anni Cinquanta e contagiò anche diversi jazzisti. Tra l’altro è una realtà a due passi dal Venezuela.
E’ un ottimo richiamo e una dimenticanza non da poco perché infatti siamo a un tiro di schioppo dalle coste del Venezuela. Purtroppo, e lo dico con tristezza, non ho mai avuto il tempo di interessarmi a questo mondo e pensa che il tamburo metallico, steeldrum, l’ho conosciuto in Francia e non quando vivevo in Venezuela poichè a noi venezuelani non ci concedevano il visto d’ingresso a Trinidad, probabilmente per il timore di affrontare nuovi immigrati.
I musicisti più importanti con cui hai collaborato?
Sarebbero diversi quelli famosi da citare ma ne cito uno per tutti, Omar Sosa; poi ci sono alcuni musicisti del Madagascar, e tra questi mi impressionò il modo di suonare del chitarrista D’Gary (Ernest Randrianasolo); mi piace il Grupo Mina, che considero il più avanzato nel campo della musica venezuelana incrociata al jazz. Ma a proposito di quanto detto prima dimenticavo di dirti che ho suonato con un gruppo che si chiamava Calypso Atlantico.
Da quello che vedo e sento i tuoi progetti vanno ben oltre i confini del Venezuela.
Avrai capito che il mio pallino, la mia inquietudine è di sentirmi sempre al servizio della musica tradizionale del mio Paese. Certamente le culture dell’Africa vorrei approfondirle e il prossimo obiettivo sarà il Senegal perché sono interessato a studiare altri tamburi che mi mancano, e quindi, come dicevo prima, il mio è un modo di vivere e debbo continuare a studiare, a fare ricerca sul campo, nella mia terra e altrove percepisco del ritmo.
Per la discografia completa invitiamo i lettori a consultare il tuo sito www.gustavo-ovalles.com , ma prima di concludere questa chiacchierata volevo chiederti di segnalarci uno dei tuoi progetti più recenti e di particolare soddisfazione.
Intanto ti ringrazio per l’attenzione dedicata al mio lavoro e, se me lo permetti, approfitto per dirti che tra ottobre/novembre 2021 uscirà il bellissimo disco a cui ho collaborato e che si chiama «Suba»: è il secondo album di Omar Sosa in duo con Seckou Keita, grande artista senegalese, maestro indiscutibile di kora. Invece la mia più recente produzione a cui tengo in particolar modo è «Sonidos del Orinoco».
Gian Franco Grilli
Foto: Gian Franco Grilli e cortesia dell’artista Gustavo Ovalles.
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