JAZZ: López-Nussa, dinastia musicale di Cuba
Assieme al pianista Harold López-Nussa abbiamo ripercorso alcune delle sue ultime produzioni, tra cui Te Lo Dije, Un Dìa Cualquiera, La Familia e la collaborazione con l’esaltante settetto El Comité. La prima chiacchierata raccolta un paio di anni fa, a causa di eccessivi ritardi di pubblicazione, è stata aggiornata al 2 dicembre 2021 grazie ad altri botta-risposta tra Gian Franco Grilli e il pianista avanero attualmente di stanza a Parigi.
L’intervista può essere ripresa e condivisa solo dalla rivista Musica Jazz
López-Nussa, brillante dinastia musicale di Cuba
di GIAN FRANCO GRILLI
Il pianista Harold López-Nussa (doppia nazionalità: cubana e francese) ci ha illustrato alcune delle sue ultime produzioni, tra cui “Te Lo Dije”, “Un Dìa Cualquiera”, “López-Nussa- Familia” e “Y Qué!? (So What)”, collaborazione con l’esaltante settetto El Comité.
Cuba ha una lunga e ricca tradizione di famiglie musicali importanti. In una di queste ha mosso i suoi primi passi ed è cresciuto Harold López-Nussa, classe 1983, figlio d’arte (il padre Ruy e lo zio Ernán sono jazzisti famosi), uno dei più importanti artisti delle ultime generazioni della scuola pianistica cubana. Tocco perfetto, limpido, swing impressionante, creatore di raffinate progressioni armoniche, Harold è uno dei giovani musicisti che guarda al passato per andare avanti. Tanto che i suoi gruppi e la sua musica, secondo l’autorevolissimo Billboard “collegano generazioni e generi”. Oramai non è neanche azzardato pensare che la possente tecnica e il dominio assoluto della tastiera, una ritmicità impareggiabile e l’affascinante modo di improvvisare stiano sempre più avvicinando Harold al podio del piano jazz en clave cubano presidiato da molti anni da due giganti del jazz come Chucho Valdés su un versante e sull’altro da Gonzalito Rubalcaba. Infatti il Nostro, oltre che brillante compositore, domina con rara competenza tutto il patrimonio musicale cubano, i grandi della musica classica, il repertorio dei grandi maestri del jazz e della musica latina. E produce con estrema facilità brillantissime jazzificazioni di canzoni e ritmi afro-cubani o latinoamericani. Tra i suoi ultimi progetti ci hanno colpito in particolare modo il lavoro con La Familia, quartetto dei López-Nussa Familia allargato spesso a sestetto. Si sono esibiti in grandi teatri e festival internazionali tra cui Cuernavaca (Messico), cinque concerti jazz in Colombia, Giappone e Corea, ma il disco già registrato da tempo è in attesa di uscita all’Avana. Abbiamo già invece gli album «Te lo Dije» (il più recente, fresco e scalpitante) e «Un Día Cualquiera» usciti entrambi con l’etichetta Mack Avenue Records e dei quali, purtroppo, per ritardi organizzativi affrontiamo diffusamente solo ora su queste pagine dopo doverosi aggiornamenti grazie ad altri due botta e risposta con il cortesissimo ed educatissimo pianista avanero, che, tra l’altro e nel frattempo, si è distinto anche al centro di uno meraviglioso progetto, ora anche album, «Y Qué !? (So What)», inciso con formidabili colleghi e amici cubani. Harold con modestia e pacatezza nel ripercorrere avanti e indietro le ultime tappe della sua carriera ci ha aperto una finestra sulla storia della brillante dinastia musicale dei López-Nussa di Cuba e di cui ora ha in mano lo scettro. Ascoltiamo, o meglio, leggiamo.
«TE LO DIJE»
Harold, partiamo da «Te lo Dije», album che ti vede in bella compagnia di altri prestigiosi giovani artisti per confezionare questa nuova fusione di sonorità.
Esattamente, oltre mio fratello Ruy Adrián alla batteria, ci sono Julio César González al basso il trombettista Mayquel González e con ospite speciale il fisarmonicista Vincent Peirani. A cui vanno aggiunti qua e là diversi contributi e tre cantanti: Cimafunk, Randy Malcom della band reggaeton Gente de Zona e Kelvis Ochoa, già collaboratore in altri miei progetti, il trombonista Heikel Fabián Trimiño, il percussionista José Julián Morejón e Jorge Aragon, tastiere. In effetti come hai detto si tratta di fusione, di un mix di jazz afro-cubano, jazz moderno con suoni contemporanei anch’essi cubani come songo e reggaeton.
Peirani interviene nella traccia “The Windmills of Your Mind” brano storico di Michel Legrand: perché questa escursione francese?
Sì è la prima volta che ho incluso un brano di un compositore francese in un album ma ho sempre desiderato creare un album solo con canzoni francesi. Per il momento inizio così, poi si vedrà, inoltre è stato un grande piacere lavorare con Vincent Peirani, che è uno dei musicisti francesi che adoro. Riguardo a quel pezzo direi che tutto è cominciato inconsciamente quando partecipai a un concerto di Michel Legrand a L’Avana e da quel momento decisi di suonare la sua musica. Quella composizione poi fu premiata con l’Oscar e quindi a distanza di un anno dalla scomparsa di Michel Legrand ho ritenuto doveroso fare un doppio omaggio sia alla Francia che a uno dei suoi gloriosi figli. Va detto a chi non conosce la mia storia famigliare che io ho un legame molto forte con la Francia: mia nonna era francese, adorava la musica di Ravel, Debussy, Erik Satie e conosceva a menadito tutto di loro. Lei ci ha fatto imparare canzoni di Edith Piaf, Brassens, Brel, in più mia madre adorava Les parapluies de Cherbourg o The Umbrellas of Cherbourg, film musicale di Jacques Demy del 1964 per il quale Legrand scrisse la colonna sonora.
Dalla Francia andiamo a Cuba, e in particolare all’Avana, immergendoci nella cultura popolare afrocubana da cui sembra ti piaccia proprio attingere per rivivere lo straordinario spirito ritmico della calle, e facendo un salto all’indietro, a un periodo in cui non eri ancora nato se penso all’insorgere del songo de Los Van Van o all’originalissimo mozambique di Pello El Afrokàn con quel ritornello simpatico “te lo dije, no critique, echate palla’ que este es mi mozambique”. Poi un po’ di sound alla Dan Den prima maniera e avanti fino al reggaeton: è giusto? E qual è il senso dell’espressione che affidi al titolo del cd, che tradotto in italiano suona “Te lo dissi” ?
Giustissimo e acuto il tuo riassunto, si capisce che hai ascoltato bene il disco e conosci bene quel nostro mondo, quelle sonorità di moda negli anni Sessanta/Ottanta del secolo scorso che tuttavia sono ancora oggi apprezzatissime, e io le ascoltavo in casa mia fin da piccolo, tutti mnusicisti, c’era musica tutto il giorno e diversificata. Tutto ciò ha arricchito via via il mio background musicale, una gran mescola di classica, jazz, ritmi afro e canzoni. Con questo spirito non poteva mancare El Buey cansao (traccia 5) di Juan Formell, un grande successo dei Van Van e con Cimafunk gli abbiamo ridato colori e accenti più moderni ancora, non credi? Te lo dissi o Te lo dije, titolo dell’album e di uno degli undici pezzi con venature del mozambique, è ispirato alla frase cubanissima usata da tutta la popolazione come espressione dell’idiosincrasia del cubano, frase che potrebbe essere interpretata come vanto o anche di rimprovero, cioè credere che noi sappiamo tutto, che siamo i numero 1 nello sport, nel baseball, nella boxe o l’atletica, nella musica, nella medicina eccetera e tu lo sai (ride!). D’altra parte io ci ravviso anche un lato molto divertente perché evidenzia l’autostima e l’orgoglio così forte di essere cubano, ma allo stesso tempo è anche un lato un po’ innocente, ingenuo pensare che sappiamo tutto noi, sempre i primi in tutto. In effetti come dicevi tu prima dell’intervista, diversi ballerini cubani di salsa cubana che hai conosciuto in Italia snobbavano o sminuivano gli altri caraibici o latinoamericani, per esempio. Infine possiamo interpretarlo come un consiglio benevolo. Il coro che canta “te lo dije, no critique, echate palla’ que este es mi mozambique”, per me significa “lo faccio alla mia maniera, l’avevo detto che l’avrei fatto così”, e parafrasando un timba direi “si te gusta bien y si no….(ride! e allora aggiungo io: también, nel senso di così e basta).
Comunque andare a ritroso nel tempo c’è il rischio di perdersi dentro il vasto patrimonio musicale cubano e internazionale indagati e non trovare facilmente la via di ritorno alla base, non l’hai messo in conto?
Non ci avevo mai pensato, ti ringrazio di questa fine osservazione poiché in effetti potrebbe andare così, ma finora sono riuscito sempre a ritornare alla base come dici tu.
JAZZ
Cambiamo registro. Harold, qualche anno fa non ti sentivi ancora un vero jazzista. Adesso sei ancora tra i trentenni e con una dozzina di dischi come leader e innumerevoli concerti jazz (a parte quelli classici) in giro per il mondo, hai acquisito maggiore autostima?
Scusami se rido perché ricordo quella conversazione. In qualche maniera oggi mi sento jazzista, anche se non nel senso più tradizionale perché la mia formazione jazzistica è da autodidatta e mi sono dedicato a questa espressione un po’ tardino rispetto ad altri. Io venivo da lunghi anni di musica classica, eppoi vedevo dei miei compagni di studi già molto scafati in tal senso mentre io ero ancora acerbo. L’improvvisazione, che considero un elemento fondamentale e distintivo del jazz, mi provocava ansia e timori, ma ora direi che non è più un problema, riesco a dominare abbastanza bene questa dimensione di creatività istantanea.
Continui a volare basso, vuoi tenere i piedi ben radicati a terra, un tipo modesto nonostante i traguardi fin qui raggiunti. A tal proposito, viaggi ancora per l’Avana con il “polaquito” Fiat 126? E prima di continuare sulla carriera musicale, ci spieghi perché ti troviamo spesso in Francia? E’ dovuto alla tua seconda nazionalità che ti permette di entrare e uscire da Cuba facilmente e vivere un po’ del clima parigino o sei per lavoro?
Ti aggiorno sull’automobile (ride!): l’ultima è una Fiat Lada russa ed è ancora più vecchia del polaquito che ho venduto. Sì, ho doppia nazionalità, quella cubana e poi anche quella francese grazie alle origini di mia nonna come dicevo poc’anzi. C’è stato un periodo che venivo spesso in Francia ma da qualche tempo ho ridotto un po’ i miei soggiorni francesi anche per il fatto che lavoro sempre di più negli Stati Uniti.
Allora andiamo ancora un po’ indietro per ripercorrere altre tappe del tuo cammino. Artisticamente quali sono i tuoi eventi più importanti avvenuti dopo il disco «El Viaje?
A memoria, e in ordine sparso, direi il Concerto di Ravel con l’Orquesta Nacionál de Cuba diretto da una francese; ho prodotto musicalmente il primo disco dell’amico trombettista cubano Mayquel González, che collabora spesso ai miei progetti; eppoi il disco «Un Día Cualquiera». Abbiamo suonato moltissimo negli Stati Uniti, Giappone, Cina, Germania con il mio trio completato da mio fratello Ruy Adrian alla batteria e il contrabbassista Gaston Joya. Nel mezzo ci sono state varie rappresentazioni del progetto «López-Nussa Familia» assieme a mio padre Ruy e mio fratello (entrambi batteristi-percussionisti) e mio zio Ernán, notissimo pianista jazz, tra cui negli Stati Uniti il 18 maggio 2018 al Kennedy Center di Washington nella rassegna “Artes de Cuba Festival”. Nel gennaio successivo abbiamo registrato il progetto The Afro Cuban Experience presso la Sala Pierre Boulez della Philharmonie di Parigi con alcuni ospiti speciali tra cui il sassofonista David Sanchez e il flautista Orlando “Maraca” Valle, un lavoro che è piaciuto moltissimo e proposto in giro per il mondo. A metà di luglio in trio con due virtuosi del proprio strumento, ossia il conguero Pedrito Martinez e il fantastico armonicista Grégoire Maret abbiamo suonato al North Sea. Poi un bellissimo concerto alla sala Federico García Lorca, del Gran Teatro dell’Avana, ma nel mio Paese alla fin fine è un sacrificio in più perché non pagano in eventi come questo e pertanto bisogna anche investire per suonare. Però…
Però continui a suonare a Cuba, con cachet in moneta nazionale e non in Usd, per mantenere la libreta (tessera annonaria per alimenti) e i servizi socio-sanitari come qualunque cittadino?
Como tú sabes, asì funciona! Io svolgo diligentemente i miei impegni perché come dici tu la “libreta” va mantenuta e in qualche modo serve sempre per comprare a prezzi ridotti prodotti come riso, fagioli, zucchero e altri, ma sono sempre di meno quelli del paniere. Comunque, e indipendentemente dalla fascia di reddito, ogni cubano ha diritto di avere quella tessera, la può utilizzare o meno. Io la uso per i prodotti che servono alle mie figlie, mi sento parte di questa società con tutti i suoi limiti, nessuna società è perfetta e personalmente come artista ho qualche privilegio in più rispetto ai comuni mortali cubani ma utilizzo gli ospedali dove va tutta la gente, non cerco corsie preferenziali e aspetto il mio turno. Poi è vero che esiste qualche clinica un po’ più avanzata, spesso è riservata ai militari, però io mi sento bene così. Ti ho fatto questo discorso perché prima di iniziare la chiacchierata mi chiedevi come mi sono trovato in un ospedale francese per un brevissimo ricovero: naturalmente non possiamo confrontare la nostra sanità (che nonostante le difficoltà del Paese garantisce buoni servizi essenziali) con quella di un ospedale del primo mondo.
«LÓPEZ-NUSSA FAMILIA»
Un ragionamento equilibrato (e di questi tempi è un miracolo) che apprezzo e avvalora la tua persona. Poc’anzi hai citato il «López-Nussa Familia»: è il progetto di cui mi accennasti a suo tempo?
Sì, perché suonare con la nostra famiglia è sempre stato un antico sogno per tutti noi: l’idea cominciò a muoversi quando il direttore del Festival Jazz Des Rives & Des Notes di Olorón Sainte Marie , piccolo centro del sud della Francia, mi affidò l’incarico di un progetto per celebrare l’anniversario del loro ventesimo festival. Lo presentammo nei primi giorni di luglio 2013 al festival Jazz di Istanbul, al club Big Noise di Amsterdam, poi al festival di Olorón. Tornati all’Avana, registrammo «La Familia», un cd+dvd con ritmi cubani in salsa jazz con due pianoforti, due batterie e l’aggiunta di una tromba. Il guaio è che l’etichetta cubana Colibrì per mancanza di risorse economiche non ha ancora potuto pubblicare tale materiale, tuttavia questo progetto l’abbiamo fatto girare in concerti in Giappone, Corea, Colombia, Usa, Messico.
Quindi la famiglia è il tuo punto di riferimento, la bussola che ti porta sempre a casa. Abbiamo trascurato la parte Avana: suoni ancora nei jazz club della capitale tour permettendo?
Raramente ho occasione di suonare all’Avana, ma se capita faccio il possibile per andare da qualche parte perché mi piace, perché è il mio Paese, e quindi quando riesco vado alla Zorra y El Cuervo, al Jazz Café. Ma funziona anche la Fábrica de Arte Cubano (FAC), un progetto multiculturale di musica, danza, teatro, arti plastiche e dove ci sono diverse sale per mostre e concerti. Non bisogna mai dimenticare che musica e danza a Cuba vanno a braccetto.
A tal proposito c’erano, e forse ci sono ancora, dei cubani che nonostante la ricca tradizione di ritmi afrocubani preferivano ballare il jazz. Ne parlava Leonardo Acosta in uno dei suoi saggi presentando Los Bailadores de Jazz del quartiere avanero di Santa Amalia, una sorta di circolo (peña) in stile Buena Vista, poi conosciuto come Esquina del Jazz e tra l’altro visitato da Dizzy Gillespie e da jazzisti di tutto il mondo di passaggio all’Avana. In questo “angolo del jazz” a cavallo degli anni Quaranta/Cinquanta del secolo scorso iniziò a riunirsi gente per ballare swing su dischi di Glenn Miller, Tommy Dorsey, Cab Calloway e ascoltando Nat King Cole, Ella Fitzgerald, Billie Holiday. Come racconta la studiosa Rosa Marquetti (autrice di vari testi tra cui “Chano Pozo- la vida 1915-1948”) sembra che ci siano ancora ottuagenari e giovani che il secondo sabato di ogni mese (salvo imprevisti e pandemia) fanno rivivere quel jazz ballabile nella Casa della Cultura del Municipio 10 de Octubre e che nel dicembre del 2015 questi Bailadores de Jazz si esibirono all’Avana con la Preservation Hall Jazz Band de New Orleans
Certamente quella è una pagina di storia di jazz allegro ballato ancora oggi e conosciuta soprattutto dai cultori. Quella moda attraversò negli anni che hai citato diversi luoghi e bar dell’Avana ed è molto interessante far luce su queste pieghe e capire meglio anni importanti della nostra musica e della nostra storia, e la signora Marquetti in questo senso fa un lavoro eccellente.
A tal proposito ti chiedo: dopo la scomparsa di Leonardo Acosta, depositario e divulgatore cubano della storia del jazz a 360 gradi, importante critico musicale e a suo tempo jazzista attivo, c’è qualche storico del jazz a Cuba in grado di colmare tale vuoto?
Ci sono dei critici musicali di buona levatura, musicologi e ricercatori come la Marquetti ma al momento non vedo nessuno che possa coprire con autorevolezza e competenza il ruolo di Acosta, che aveva una marcia in piú, analizzava bene le cose, sapeva forse più di altri quel che scriveva perché, come hai giustamente ricordato, oltretutto è stato anche un jazzista, un sassofonista e uno dei primi organizzatori di eventi jazz all’Avana negli anni Cinquanta, infine una penna molto acuta e seria.
«UN DÍA CUALQUIERA»
Ora, se sei d’accordo vorrei parlare del cd registrato a Boston, ma tutto cubano, in trio, e di cui non ci è stato possibile illustrarlo prima.
Parliamone certamente. Sì, «Un Día Cualquiera» è un cd assolutamente avanero: mio fratello, drummer, Ruy Adrian è al mio fianco da sempre; Gaston Joya, ottimo bassista – ha suonato con Chucho Valdés, con Omara Portuondo e altre decine di grandi artisti – da oltre un anno ha ripreso a lavorare con me, ma pur avendoci suonato assieme tante volte questa è stata la prima registrazione per un disco assieme. Il trio è il mio formato preferito, mi trovo più a mio agio e questo lavoro è come un concerto fatto in un salone di casa nostra. Siamo tre amici da moltissimo tempo, abbiamo studiato più o meno tutti nelle stesse scuole all’Avana e ci frequentiamo. Il disco, il secondo con la statunitense Mack Avenue, è stato prodotto dall’amico-chitarrista brasiliano Swami Jr. e inciso alla WGBH di Boston. Che dire ancora: rappresenta quello che ci succede ogni giorno, niente di speciale ma semplicemente una giornata come tante altre che trascorriamo suonando musica o sbrigando altre cose.
D’accordo, ma siccome hai un dna trafficatissimo, tracce di sangue polacco, francese, portoricano, cubano; sei un cosmopolita che molto tempo dell’anno lo trascorre all’estero, ti chiedo: «Un Día Cualquiera» ha spirito avanero, parigino o newyorkese?
Fantastica domanda: è una giornata cubana, pensando a una passeggiata per il centro dell’Avana, incrociando degli amici, magari musicisti coi quali trovarci a suonare quel che ci piace di più, dal jazz autentico al latin, dalla musica popolare alla classica, che è la musica della mia formazione fino ai diciott’anni. Quindi nel disco ci sono mie composizioni oltre a canzoni e autori che ci portano indietro negli anni, perché ci piace riscoprire le origini di vecchi brani che ci affascinano e che sono stati la colonna sonora della nostra educazione musicale, parlo di nomi come Ernesto Lecuona (Danza de Los Ñañigos e Y la Negra Bailaba) o di brani come il feeling bolero Contigo en la distancia di César Portillo de la Luz, compositore famoso che se non ricordo male tu hai conosciuto di persona.
Sì, certo, che memoria! La prima volta che incontrai César Portillo fu all’inizio degli anni Ottanta: venne nell’allora bislacca hall dell’Hotel Vedado a farmi ascoltare, con la sua chitarra, alcuni dei suoi maggiori successi. Emozionante!!! E allo stesso tempo fu un momento surreale e ti spiego perché: César era un grande, uno storico Maestro, ma finito nel dimenticatoio come altri artisti importanti dopo la Rivoluzione. Ricordo che, mentre intonava alcuni accordi di suoi pezzi celeberrimi, alcuni dei vigilantes dell’albergo sbirciavano, per esempio, per vedere che non ricevesse dal sottoscritto mance in dollari o pesos pensando che fosse uno dei tanti trovador de la calle. Non lo conoscevano. Una realtà assurda, in quella Cuba il clima che si respirava era di sospetto su chiunque, non era ancora il Paese che incominciò ad andare di moda una dozzina di anni dopo con l’apertura al turismo internazionale, l’avvento internazionale della timba e successivamente la riscoperta del Buena Vista Social Club. A parte questi dettagli sono certo che avrai suonato dello stesso autore oltre a Contigo en la distancia pezzi come Son al son oppure Tú, mi delirio accompagnando al piano cantanti della vecchia guardia come Miriam Ramos, Elena Burque, Omara Portuondo. Queste esperienze con i big della musica popolare cubana ti hanno consentito di indagare la ricchezza della canzone e il lato romantico della vostra musica?
Davvero incredibile quello che racconti, una situazione antipatica, squallida e triste, e al cospetto di un pilastro della musica moderna cubana come César!!! Vabbé, lasciamo perdere, tu hai conosciuto certe fasi e quindi… Invece da quelle brillanti voci femminili citate ho imparato tantissimo: Miriam è un’artista con una cultura vastissima e lavorare poi con Omara è stata una formidabile e utilissima palestra durata quasi tre anni. Come avrai notato, io sono una persona e un artista abbastanza duttile, che assorbe, assimila e rielabora le cose. Quei repertori sono stati anche una sfida per un giovane pianista come me poiché si trattava di canzoni, ma di una complessità armonica e melodica davvero complicate.
Una cosa ho notato: nella tua produzione non c’è mai una sacralizzazione di una tappa specifica o di jazz o di latin, oppure lavorando su altre sonorità. Sembri invece incarnare il ruolo del narratore che sintetizza le musiche cubane e caraibiche di ieri e di oggi: mi riferisco, ad esempio, a El Cumbanchero, una rumbita di un portoricano mischiata alla tua Conga Total. Chi ha scelto i brani da incidere?
È vero, tutto ciò fa parte della mia identità, non c’è un prima e un dopo; la musica di Lecuona e in questo caso El Cumbanchero lo conosco fin dalla mia infanzia. I due pezzi di Lecuona citati prima li ho sempre suonati sia in piano solo che in gruppo, quindi gli arrangiamenti per il trio mi sono venuti in modo spontaneo. El Cumbanchero del portoricano Rafael Hernández è sgorgato sulla tastiera con grande naturalezza: stavo abbozzando l’idea compositiva di Conga Total e a un certo punto mi sono reso conto che la melodia richiamava una parte del Cumbanchero: allora ho fuso la mia composizione e quella storica di Hernández. Ho scelto io i pezzi da incidere e con gli altri compagni di viaggio abbiamo studiato sul come farlo, smantellandoli e ricombinandoli alla nostra maniera, sintetica, come dici tu, poiché le undici tracce sono dei concentrati di pochi minuti ciascuna.
Un “pomeriggio qualsiasi a Parigi” (Una Tarde Cualquiera En Paris) è un po’ tanguero (stile Cumparsita/Choclo) e lo dedichi a Bebo Valdés: hai mai suonato con il padre di Chucho?
Sfortunatamente non l’ho conosciuto, però io sono sempre stato ispirato sia da Chucho che dal suo primo maestro. Chucho mi ha fatto innamorare del jazz quando avevo circa dieci anni durante una sua breve performance alla fine dell’anno scolastico del conservatorio Manuel Saumell che frequentavo: Valdés trattava il piano come un giocattolo e l’abc dell’arte pianistica l’aveva imparata dal babbo Bebo. Mi sembrava doveroso quindi omaggiare Bebo con grande riconoscenza poiché è stato uno dei musicisti che ha fornito contribuiti alla storia del jazz e della musica cubana. Verissimo, il pezzo ha evidenti pronunce del tango-folk (ride!) ma ultimamente nei live ho modificato questi frammenti.
Curiosiamo ancora un po’. Il canto all’orisha Eleguá ha qualcosa di particolare: non c’è il tambor batá, che è basico in questo rituale; Hialeah, che richiama il sobborgo popoloso di Miami, è il pezzo più latin del disco dedicato alla folta comunità cubana che anima l’omonima città; e Preludio (to Jose Juan) di chi parla?
Preludio è un omaggio a Jose Juan, uno spagnolo che viveva a Cuba, amico della mia famiglia e per molti anni direttore dell’Unicef all’Avana, scomparso a causa di un incidente stradale proprio mentre stavamo registrando il disco e allora noi tre l’abbiamo ricordato così. Vero, il canto rituale al santo Eleguá nella tradizione yoruba si esegue con il toque melodico dei batá, che qui ho ricreato sulla tastiera con la mano sinistra: c’è un canto, una melodia che non è ben definita e io l’ho armonizzata in quel modo. La melodia può variare un po’ rispetto al canto originale che si rivolge al primo Santo della Santería, Eleguá, la divinità che apre il cammino nella vita e che si suona nei rituali per ottenere una benedizione spirituale. Hialeah l’ho composta perché in quella città vicino a Miami ho scoperto di avere tanti amici che non vedevo da molto tempo all’Avana, non sapevo più nulla di loro. Questa realtà di cubani mi ispirava e così la melodia l’ho elaborata partendo dalla colonna sonora che ho scritto per il film «Ya no es antes» del regista cubano Léster Hamlet: in questo film a un certo punto si parla proprio di Hialeah.
E qui spunta la passione per il cinema e le arti plastiche. L’album si apre con Cimarrón – funky jazz che in poco spazio modula dentro altri stili – e si chiude con Mi Son Cerrao’ dove la tradizione è messa in evidenza da tuo fratello che stacca un bel solo di bongó, brano che se non sbaglio era già nel tuo cd d’esordio «Sobre el atelier».
Mi piace commentare storie per il cinema, la televisione, è un contesto stimolante. Ribadisco il trio è il mio formato musicale preferito, mi sento molto libero e mi ispira la creatività. Mi Son Cerrao’ è un mio vecchio brano inciso proprio nel mio primo disco, in piano solo, e questa versione è un son-descarga che nei tempi morti, di attesa, suonavamo in studio per scaricare la tensione: non avrebbe dovuto entrare nel progetto, ma alla fine ci dispiaceva non inserirlo.
In sintesi, ami le cose semplici, trasparenti, non tanto concettuali, pezzi brevi, musica non complicata e nel solco del jazz en clave. A proposito di clave: è sempre valido il modo di dire «Si no hay clave no hay son»? Cioè è fondamentale che sia in primo piano il concetto della clave nell’afrocuban jazz contemporaneo?
Rispondo ai due argomenti. Forse un giorno mi verrà voglia di fare un disco di jazz un po’ più contemporaneo, ma in questo momento quello che sento veramente è il jazz latino, diciamo classico, linguaggio un po’ distante da quella musica incredibile, in senso buono, che fanno alcuni miei amici e connazionali come Yosvany Terry, Dafnis Prieto, David Virelles o anche su un altro terreno Alfredo Rodríguez. Io desidero fare progetti molto concreti, concisi e credo finora di essere riuscito nell’intento. Il refrain «Si non hay clave…» non invecchia e ritengo che in quasi tutti i progetti di musicisti cubani la clave sia sempre presente anche quando non emerge o non spicca tanto facilmente, ma c’è, perché è alla base del nostro mondo sonoro.
In generale i dischi prodotti all’estero non si vendono a Cuba. E’ così anche per i tuoi? E di quelli invece registrati a Cuba sai dirci quante copie ne hanno vendute?
Asì es! Esatto, il mercato discografico internazionale non è ancora entrato a Cuba, ma forse il nostro ultimo disco riusciremo a farlo pubblicare da un’etichetta cubana, la Colibrì. Non c’è ancora nulla di concreto, ma stiamo facendo il possibile per superare anche questi limiti che sono di tipo economico, e tra l’altro ho diverso materiale giacente presso quella casa discografica in attesa di pubblicazione. Non so quante copie vendute dei miei dischi cubani, ma so di avere ricevuto pochi soldi. Qualcosina invece guadagno come diritti d’autore, pochissimi denari che non mi arricchiscono ma servono per vivere un po’ meglio.
EL COMITÉ
In Francia, dove sei di casa e invece ti va meglio anche economicamente, tra i tuoi percorsi è nato qualche anno fa El Comité, progetto in settetto con un groove cubano pazzesco, energia stellare per omaggi a diversi Maestri, partendo da Chucho Valdés e arrivare a Miles Davis, è così?
Esatto, quello è lo spirito che ha mosso il progetto. In effetti la prima esibizione fu nel 2017 al festival jazz di Tolosa con altri sei formidabili musicisti e amici cubani come Rolando Luna (pianista), Rodney Barreto (batteria), Yaroldy Abreu (percussioni), Gaston Joya (contrabbasso), Carlos Sarduy (tromba) e Irving Acao (sax). Come vedi siamo in due pianisti e ci alterniamo alle tastiere e Fender Rhodes. Ci siamo divertiti così tanto in quella settimana di residenza artistica a Tolosa nel reinterpretare con nuovi suoni e arrangiamenti il lavoro di geniali artisti cubani e internazionali con i quali siamo cresciuti, da Chucho Valdés a Emiliano Salvador a Miles Davis, che decidemmo su due piedi registrare in uno studio locale i nove brani del cd «Y Qué !? (So What)», produzione indipendente Ouïe di Philippe Monsan. Lo stesso Philippe tra l’altro, e forse non lo sai, vorrebbe pubblicare nel 2022 un Live registrato all’Avana prima della pandemia. Insomma un potente concentrato di afrocuban, jazz, funky, soul che ci piace molto. Ma una cosa a cui tengo sottolineare è che alla base di tutta quell’energia che hai riscontrato nei video su youtube c’è la grandissima amicizia che ci lega. Qui nessuno è leader, un comitato molto democratico e disorganizzato (ride!); purtroppo il limite allo sviluppo e all’evoluzione dl progetto, il ritrovarsi dipende dagli impegni che ognuno di noi ha con le proprie formazioni.
Infatti qualche segnalazione ti dava in giro negli States tempo fa e adesso che siamo alla fine di novembre 2021 ti trovo nuovamente a Parigi. Sei in tour?
Per la verità sono qui a Parigi da quindici giorni per un concerto tenutosi a la Citè de la Musique –Philarmonie de Paris con il collettivo cubano El Comité, poi da solo ho tenuto dei concerti a Praga e adesso sono rientrato in attesa di altro lavoro nella capitale francese. Gli States? In effetti io ero uscito da Cuba da diversi mesi per con certi e anche un tour negli Stati Uniti, diciannove concerti con un nuovo progetto, molto interessante per i tuoi gusti, che si chiama Timba a la Americana, con mio fratello batterista Ruy Adrian, il bassista Lukes Curtis e l’armonicista Grégoire Maret, svizzero che vive a New York. In repertorio ci mettiamo brani del disco Te lo Dije e di altre produzioni più alcuni di nuova composizione. Non è ancora diventato disco ma spero lo diventi.
Prendo spunto da Timba a la Americana per fermarci un attimo sugli Stati Uniti, che abbiamo toccato diverse volte in questa intervista, per capire un altro fronte. A seguito delle pesanti proteste registrate a Cuba da luglio 2021 in poi ti chiedo se ci aggiorni o almeno ci fai conoscere il tuo punto vista su quanto è accaduto, cosa ne sai, quanto ti ha coinvolto e sul versante delle relazioni Cuba- Stati Uniti dopo Obama, il trumpismo e ora con Biden.
La cosa si fa seria. Anni fa ti commentai che si vedevano enormi cambiamenti in corso grazie alle aperture di Obama, poi con l’arrivo di Trump la situazione ha fatto un brutto salto indietro, è peggiorata tantissimo: complicato ottenere un visto per entrare negli Stati Uniti; si allungano i tempi di attesa ancora di più rispetto a prima della fase di Obama, cioè ancora prima del disgelo. Inoltre io non potevo chiedere dall’Avana, ma da un paese terzo, il visto per entrare negli Stati Uniti, una cosa incredibile, anacronistica, ma è così. Infatti quando capitava approfittavo di tour in Europa per chiedere da Parigi il visto per suonare a New York o negli Usa se avevo contratti in essere. Il mio comunque è un esempio molto parziale, tuttavia in generale il peggioramento lo vedi dal turismo nordamericano verso Cuba che è calato drasticamente rispetto all’esplosione che ci fu grazie al disgelo avviato da Obama e Raul Castro. Poi il trumpismo, la politica, e infine la pandemia ci hanno messo in ginocchio dal punto di vista sanitario (nonostante Cuba abbia prodotto i propri vaccini e vaccinati quasi tutti ma…) ed economico. Il Paese è stato chiuso per quasi diciotto mesi, e senza le entrate principali del turismo ehhh….Chiaro che tutto il mondo sta soffrendo ma come tu mi insegni ognuno cerca di risolvere il proprio problema. Discorso lungo, ma speriamo di riprenderci con la riapertura dei voli internazionali e di attività turistiche, ristoranti eccetera che dovrebbero portare divisa da metà di novembre 2021 in poi. Sulle proteste? che dire: è conseguente al discorso di prima, comunque l’11 luglio 2021 quando è scoppiata la prima rivolta io mi trovavo all’estero per concerti; si è registrata una forte e tesa crisi politica, economica e sociale, dovuta alle restrizioni pesanti e alle misure prese per la pandemia. Io ritengo però che coloro che dirigono l’economia e la politica non siano stati all’altezza, è la mia opinione. Le persone scese in strada avevano sulle spalle un grosso fardello, un mese senza la corrente elettrica tutto il giorno, la difficoltà di trovare alimenti o a prezzi altissimi al mercato nero, restare in casa dalle 21, quindi el pueblo ha protestato e il governo ha represso abbastanza duramente alcuni leader dei manifestanti. Detto questo non dubito che ci sia stato qualcuno a soffiare sul fuoco per approfittarsene della situazione ma il malessere era reale. Comunque, ripeto, da metà novembre hanno riaperto i ristoranti, il turismo e la situazione covid migliorata rispetto a qualche mese fa.
Sentendoti da Parigi e tirando le somme sulle difficoltà incontrate e il tuo privilegio “francese” desumo che bazzicherai di più da questa parte dell’Atlantico, o sbaglio? E dei rapporti con l’Italia, dove le tue produzioni circolano ma non sei conosciuto dai jazzofili e addetti ai lavori, che ne pensi?
Parto dalla prima domanda: infatti per un po’ sia per me che per mio fratello la base sarà francese, terra che è la nostra seconda patria e così mi muovo meglio per il lavoro. Per il momento mio padre e mio zio sono all’Avana. Eh, è vero, in Italia lavoriamo di rado, ci sono venuto pochi mesi fa per una serata di piano solo classico a Pesaro. In passato suonai a Trieste, Venezia, Selva di Fasano, ma in contesti abbastanza contenuti. L’Italia mi affascina, spero di trovare nuovi contratti e in particolare mi piacerebbe suonare a Bologna, città che ho visitato da ragazzino e che dalle tue informazioni ho saputo di avere un paio di importanti rassegne jazzistiche, chissà? Ovviamente mi piacerebbe partecipare con le mie formazioni, o anche con El Comité, al rinomato Umbria Jazz.
Harold, oltre ad essere la tua professione, in generale la musica cosa rappresenta per te?
Non potrei pensare alla mia vita in generale senza l’arte, ti parlai di mio nonno artista capostipite, ma in particolare per me la musica e il pianoforte sono fondamentali come l’aria e l’acqua: alcuni problemi nella vita li ho affrontati e combattuti con questo miracoloso binomio.
Gian Franco Grilli
Foto di Gabriel Guerra Bianchini, pervenute dall’artista.
VIETATA LA RIPRODUZIONE DI PARTE O DELL’INTERA INTERVISTA.
Bellissima e approfondita intervista che solo grazie alla vasta conoscenza musicale e non solo del mondo cubano da parte dell’autore poteva essere effettuata.