Martín Rojas: la mia vita legata a Sanremo e al jazz
Il compositore e chitarrista cubano Martín Rojas Torriente dopo un lungo silenzio è riapparso, in compagnia del grande cantautore e suo collega Pablo Milanés, al festival Barranquijazz sulla costa caraibica della Colombia. Gian Franco Grilli l’ha raggiunto per ripercorrere la sua lunga carriera artistica e la dolorosa vicenda umana segnata da un gravissimo incidente subìto nell’infanzia. Trauma accettato e superato con la musica.
INTERVISTA ESCLUSIVA di Gian Franco Grilli PER MICARIBE.IT E «MUSICA JAZZ». Vietata la riproduzione.
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Un bambino cubano felice, nonostante le umili condizioni della famiglia, che sognava di ammirare e attraversare le nuvole pilotando un aereo quando pochi giorni prima del Natale del 1952 una violenta esplosione di fuochi pirotecnici lo privò della vista e gli segnò la vita. Martin aveva otto anni e riuscì a superare il trauma di questo terribile evento con l’aiuto di un professore che gli insegnò canto, solfeggio, accordi di chitarra, le canzoni di Sanremo e Blue Moon. Questa in sintesi la storia della tragica vicenda iniziale di Martín Rojas Torriente, cubano, settantottenne, compositore, uno dei protagonisti più autorevoli della chitarra cubana moderna, del bolero jazz e la cui carriera si è intrecciata in gran parte a quella della cantante Omara Portuondo e al fianco dell’eccellente cantautore Pablo Milanés, con il quale tra l’altro gettò le basi iniziali del Movimento musicale della Nueva Trova assieme a Silvio Rodriguez, Eduardo Ramos, Noel Nicola e altri. Infatti il suo fu un grande contributo innovativo e di vitalità dal punto di vista armonico-melodico alla Nueva Trova imponendosi all’attenzione degli altri giovani colleghi per tecnica chitarristica avanzata, raffinata, essenziale, rifuggendo l’esibizionismo. Un paio di anni prima però, era il 1966, il Nostro si era cimentato come bandleader fondando Sonorama 6, gruppo jazz formato da giovani talenti, tra cui Enrique Plá, Carlos Del Puerto e Paquito D’Rivera che diventeranno poi colonne portanti dei mitici Irakere. Da lì in avanti non è più stato sotto i riflettori come leader di formazioni importanti, tuttavia la sua storia di chitarrista e compositore meritava di essere raccontata. E per farlo con la memoria siamo ritornati al 1985 quando lo incrociammo per la prima volta nella tournée solidaristica in Italia con la band del gruppo di Omara Portuondo (direttore Adolfo Pichardo), la cantante che una decina di anni dopo verrà consacrata Diva sui palchi di tutto il mondo con il fenomeno del Buena Vista Social Club. Diversi anni dopo all’Avana incontrai Omara Portuondo e nel rinverdire i giorni di quel tour solidaristico targato ICAP appresi che Martín era scomparso dal panorama musicale dell’Avana dal 1993, nel pieno del periodo especial. Solo recentemente siamo riusciti a localizzarlo riannodando i fili di quella lontana conversazione grazie alla reunion nel Barranquijazz (Colombia) con l’eterno amico-collega Pablo Milanés. Dopo un veloce scambio di convenevoli chiedo a Martín qual è la composizione che l’ha gratificato maggiormente, e con orgoglio ed emozione risponde: «En la Orilla del Mundo, un brano che ha sedotto il grandissimo Charlie Haden tanto da volerlo inserire nel suo repertorio e inciderlo in alcune sue produzioni come «Nocturne» in compagnia di jazzisti come Gonzalo Rubalcaba, Joe Lovano e… Federico Britos, violinista uruguaiano con il quale ho suonato spesso». Brano che ritroviamo anche nell’album live Charlie Haden-Gonzalo Rubalcaba «Tokyo Adagio» (impulse!, 2015). E così parte l’intervista che ripercorre le fasi principali della vicenda umana e professionale di questo artista il cui stile è un mix di influenze sonore, dalla musica classica ai ritmi cubani, dalla trova al folklore latinoamericano al feeling, che è una brillante e innovativa forma in grado di coniugare il bolero con la modernità e la sintassi del jazz.
Nonostante la tua lunga carriera come uno dei migliori rappresentanti della chitarra cubana moderna e aver suonato con grandi artisti cubani, in Italia (dove tra l’altro hai già suonato) pochissimi ti conoscono, tranne i pochi fan di latin e bolero jazz. Quindi ci sembra doverosa una tua scheda anagrafica anche per fare chiarezza sulla tua data di nascita.
Il mio nome completo è Martín Bernardo Rojas Torriente, sono nato all’Avana il 23 febbraio 1944 per i documenti ufficiali ma in realtà la nascita sarebbe avvenuta il 3 settembre 1943 e per un errore grossolano venne registrata così, creando un po’ di confusione. La mia non era una famiglia di musicisti e incominciai a studiare la chitarra nel 1952, l’anno che persi la vista. Se non ricordo male, ne parlammo di sfuggita quando ci conoscemmo oltre trent’anni fa nel tour italiano con Omara Portuondo.
Ora ricordo vagamente i dettagli di quella storia incredibile che mi accennò il vostro bassista Tony Pérez. E giacché ne hai parlato, e se non ti risveglia dolore, per fare chiarezza su cose orecchiate frettolosamente vorrei chiederti se l’incidente fu in seguito ad un atto sovversivo di chi stava preparando attacchi al presidente Fulgencio Batista o se invece la causa la si deve ad altro.
Lo spiego volentieri e senza imbarazzo ai vostri lettori: la mia cecità fu causata dall’esplosione di polvere da sparo e di altri micidiali impasti usati per i fuochi d’artificio prodotti in una fabbrica clandestina vicino a casa mia. Quel tragico evento però non aveva nulla a che fare con la battaglia politica contro Batista; eravamo in vista del Natale e quindi in questa fabbrichetta lavoravano intensamente per produrre enormi quantitativi di giochi pirotecnici. Purtroppo questa gente non rispettava certe norme e regole, ma parlare di sicurezza in quegli anni era pura utopia.
Un dramma con effetti psicologici devastanti. E come risposta ti buttasti nella musica per alleviare dolore e superare il trauma sotto la guida di un maestro?
Proprio così, a otto anni incominciai a studiare canto, solfeggio e teoria musicale con il professor Antonio Idolomiro Boix nella zona di Marianao dell’Avana. Quel professore mi aiutò moltissimo, fu lui stesso poi a suggerirmi di studiare con un docente di chitarra classica.
Chi era quel professore di chitarra classica e cosa ricordi di quell’epoca?
Si chiamava Isaac Nicola: mi insegnò anche moltissime cose indipendentemente dalla musica classica. Infatti quelle lezioni mi aiutarono a suonare brani moderni e in particolare ad imparare molte canzoni italiane come Non dimenticar… che t’ho voluto bene di Flo Sandon’s interpretata poi divinamente anche dal grande Nat King Cole; poi Con Te e altre canzoni, ma eseguivo anche pezzi che erano in voga negli Stati Uniti. Inoltre presi lezioni di stili sudamericani da Roberto de Moya, un cubano che visse molti anni in Colombia e a suo tempo fu chitarrista di Carlos Gardel.
Insomma, un bel rapporto con la musica italiana sempre molto apprezzata a Cuba.
Credo che la canzone italiana, in particolare il festival di Sanremo (che a Cuba era seguitissimo) e il jazz mi salvarono la vita. Anni dopo mi innamorai anche della canzone Volare – Nel Blu Dipinto di blu di Domenico Modugno, forse il brano italiano più famoso nel mondo che adorai anche nell’interpretazione di Dean Martin. All’inizio il mio fu un percorso dentro la canzone affinché potessi identificarmi con le armonie di musiche moderne di allora come Blue Moon, Summertime, Tea for Two e anche con il repertorio della jazzsong nordamericana. Devi tenere presente che studiavo nella Scuola per non vedenti Varona Suárez, un collegio privato poiché, se non ricordo male, in quel tempo un cieco non poteva iscriversi al Conservatorio e inoltre in quella istituzione musicale non esisteva un corso adeguato in Braille.
E pensare che il non vedente Louis Braille, oltre ad essere un valido musicista (organista), realizzò una scrittura per permettere ai non vedenti di utilizzare la notazione musicale e, soprattutto, che nella storia della musica ci sono stati e ci sono molti musicisti ciechi. Ciò detto, tu inizialmente suonavi i brani con il solo aiuto dell’orecchio musicale?
Intanto ti ringrazio per ricordarci questo quadro molto realistico, sarebbe poi interessante parlare di questo aspetto per capire cosa accade oggi ai non vedenti o ipovedenti con le nuove tecnologie a disposizione, ma tra pro e contro. Per rispondere alla tua domanda ti ricordo che suonavo ad orecchio, imparai le prime cose da autodidatta, e studiai un po’ anche con la notazione musicale di Braille. Mi applicai seriamente attenendomi alle lezioni del professore e, non potendo leggere, memorizzavo l’armonia; non era tutto facile, intendiamoci, anche se credo che suonare la musica leggera e alcune espressioni jazzistiche sia cosa più agevole che affrontare la musica colta. Musica con la M maiuscola che poi ho studiato attentamente e sviluppando interessi specifici per la musica impressionista, per Debussy, Ravel eccetera.
Questa discriminazione, o diciamo scarsissima attenzione per i non vedenti, è scomparsa durante la Rivoluzione socialista di Cuba?
Non credo di essere mai stato discriminato nel vero senso della parola perché già nel 1958 cominciai a lavorare suonando in programmai televisivi e in varie emittenti radiofoniche, tra cui la CMQ con un gruppo che interpretava musiche sudamericane, canzoni venezuelane, argentine, brasiliane oppure brani di musica andina della Bolivia o del Perù. Capisco la tua giusta e sensibile osservazione perché sono enormi le difficoltà di chi soffre di qualche disabilità rispetto a un normodotato il qualsiasi società. Comunque a Cuba non ho sofferto per questo.
Si racconta che da adolescente ti accompagnavano alla casa del Feeling, animata sia dai proprietari di quell’appartamento, Tirso e Angel Diaz, sia da alcuni dei principali protagonisti del movimento feeling (o filín, come dicono i cubani) tra cui Cesar Portillo de la Luz, José Antonio Méndez, Bebo Valdés o anche la giovane Omara Portuondo: è andata così oppure non è del tutto vero?
Ero giovanissimo, e per questo non vissi direttamente quella fase del Callejón de Hammel, nel Centro dell’Avana, però ho conosciuto quasi tutti gli artisti che hai citato identificandomi perfettamente con le loro idee musicali e culturali. Mi piacevano le loro musiche e canzoni, quel modo di combinare bolero e jazz creando composizioni diventate nel tempo degli standard per molti jazzisti cubani e internazionali. Crescendo lavorai su quel versante musicale suonando nei vari club avaneri di filineros, cioè dove si coltivava il feeling, nel Pico Blanco del St.John’s hotel o nei club degli Hotel Capri e del prestigioso Nacional, ma anche in altri cabaret della capitale.
Specifichiamo: iniziasti a suonare in quei locali dell’Avana nella fase della dittatura di Batista, e quindi in quella realtà molto dinamica, di grandi sperequazioni sociali dove però imperava una caotica vita notturna tra case da gioco, night club e numerosi postriboli in mano a grandi mafiosi, o il tuo esordio avvenne soltanto dopo il trionfo dei Barbudos?
Diciamo che la mia attività professionale è iniziata nel 1958 quando fondai il gruppo Antares: facevamo musica latinoamericana e continuammo fino al 1964. Comunque tutto partì a cavallo tra i due sistemi, tra il 1958 e il 1959, proprio nei mesi turbolenti del passaggio dal capitalismo batistiano all’ascesa al potere di Fidel Castro, Raul, Che Guevara e dei loro compagni guerriglieri.
A tal proposito, quali sentimenti provasti quando entrarono i Rebeldes all’Avana sotto il comando di Che Guevara e Camilo Cienfuegos? E ricordi qualcosa sul rapimento del grande pilota argentino Juan Manuel Fangio che diede una forte visibilità internazionale ai guerriglieri?
Io ero un ragazzino molto occupato dalla musica, non avevo consapevolezza di quanto stava accadendo nella società dal punto di vista politico; sentivo parlare di quei giovani con barbe e capelli lunghi; invece ricordo meglio alcuni fatti del sequestro di Fangio poco prima della partenza del Gran Premio dell’Avana, un gesto che voleva attirare l’attenzione del mondo su quanto stava scoppiando a Cuba. Dopo il trionfo della Rivoluzione molti musicisti se ne andarono, io però rimasi a vivere e a lavorare a Cuba fino al 1993, poi espatriai.
Fermiamoci ancora un po’ al tempo di Batista. Eri giovanissimo, ma hai qualche barlume di ricordo dell’epoca d’oro della musica cubana degli anni Cinquanta quando jazzisti come Woody Herman, Pete Candoli, Kenny Drew, Eddie Shu, Philly Joe Jones, Nat King Cole, Zoot Sims, Georgie Auld, Sarah Vaughan, Roy Haynes eccetera, erano di casa nei cabaret storici dell’Avana come l’ Havana 1900, Las Vegas, Pigalle, Club 21, Sans Souci?
In quel periodo non ebbi occasione di sentire quei grandi nomi che suonavano nei club citati, e che erano solo i più importanti tra i tanti locali di tutta la capitale. Cominciai a saperne di più e a conoscere qualcosina di quell’ambiente con l’inizio della mia professione che solo per puro caso iniziò quando un giorno conobbi il proprietario del famosissimo Tropicana, Martin Suarez, il quale mi invitò ad ascoltare Nat King Cole. Tra l’altro, ora che ne parliamo e pensando al tuo paese, ricordo lo straordinario evento perché a un certo punto qualcuno del pubblico disse che nel tavolo vicino al nostro c’era la diva italiana del cinema Silvana Pampanini. Successivamente andai altre volte al Tropicana per sentire artisti nordamericani e internazionali.
A proposito di dive italiane: nel 1957 la cantante jazz Jula de Palma, forse fu la prima vedette italiana (e credo l’ultima) a calcare quel palcoscenico raccogliendo il testimone dalle mani di Nat King Cole.
Non lo sapevo, ma deve essere stato emozionante per quella cantante il cui nome, Jula, però ora mi suggerisce qualcosa, non ho ricordi precisi però sarebbe stato bello ascoltarla in quella magica atmosfera con grandi jazzisti.
Allora parliamo di jazz: raccontaci le tue prime esperienze con questo linguaggio.
Avevo già dimestichezza con la musica afroamericana facendo parte del gruppo Los Astros di Raul Gomez e suonavamo jazz mescolato a pop-rock, poi nel 1966 fondai un gruppo di jazz combinato con ritmi cubani assieme a giovani musicisti, alcuni dei quali avrebbero poi fatto parte di Irakere, ad esempio il batterista Enrique Plá, il bassista Carlos Del Puerto e lavorò con noi, in alcuni concerti, anche il grandissimo Paquito D’Rivera.
Stai parlando di Sonorama 6, gruppo che fu presente ad una delle più importanti superdescargas o jam session dell’Avana nel 1967, momenti spesso citati dal sapiente Leonardo Acosta,
Fantastico! Era proprio quel gruppo e non ricordavo con precisione la data di quell’evento, ma se lo riporta Acosta nei suoi pezzi c’è da stare tranquilli, perché Leonardo era uno studioso molto serio, musicalmente preparato, era anche un jazzista e ben documentato. Nel gruppo Sonorama 6 io suonavo la chitarra elettrica e c’erano, oltre a quelli citati, il geniale percussionista-batterista «Changuito» Quintana, che inizialmente suonava le tumbadoras o congas, poi trasferì tutto il suo sapere ritmico sulla batteria, e anche della partita faceva parte il bravissimo sassofonista Carlos Averhoff, colonna di Irakere, deceduto qui a Miami quattro anni fa. E, se non ricordo male, a quella descarga storica che hai citato parteciparono pure Chucho Valdés, Del Puerto, Paquito D’Rivera e Bobby Carcassés.
Sonorama 6 suonava jazz mainstream – incurante di tutti i divieti o proibizioni verso le musiche imperialiste, tra cui anche il rock – o ritmi afrocubani con sfumature jazz?
Certamente c’è stata una fase in cui il jazz non era ben visto, per non dire proibito. Non è che venivi incarcerato, per quanto ne so io, ma le musiche del «enemigo» capitalista (tra cui anche le canzoni del Beatles) non potevamo suonarle in programmi radiofonici o alla televisione, però nei locali si faceva un repertorio infilandoci anche temi jazz. Il nostro indirizzo era soprattutto di jazz latino o afrocuban jazz, facendo spiccare il feeling, standard di jazz insieme ad altre sonorità. Una cosa che pochi sanno è questa: ho suonato per un po’ anche il contrabbasso nel gruppo di Mario Lagarde nel Club la Gruta ubicato nella Rampa, che se conosci la capitale cubana sai localizzarlo benissimo.
Nell’ Isla, isolata dal mondo occidentale a causa dell’embargo statunitense, ma anche da una sorta di auto-embargo cubano, come venivate a conoscenza di quei gruppi «yanquis» che spopolavano negli anni Sessanta e Settanta?
Ci si teneva informati attraverso gli artisti che ritornavano dall’estero con un disco o una musicassetta, e questi materiali venivano duplicati e cominciavano a circolare tra noi musicisti; oppure c’era chi di nascosto riusciva a sintonizzarsi sulle frequenze di radio nordamericane.
Vuoi spiegare ai profani di musica cubana la differenza sostanziale tra bolero e feeling?
Il feeling (o filín come si dice a Cuba) è un’espressione musicale che nasce dall’influenza del jazz dal punto di vista armonico e melodico. Le canzoni si basavano su testi elaborati e molto raffinati in ambito espressivo, si univa musica moderna, poesia e il ritmo cubano del bolero. Questa scansione ritmica e romantica del bolero consentiva a queste canzoni innovative di trasformarsi in qualcosa che la gente potesse anche ballare dolcemente. Qualcosa di simile, ma non uguale, avvenne anni dopo a Rio de Janeiro combinando tradizione della MPB e jazz, cioè la bossa nova. In entrambe le situazioni, se ci fai caso, ritroviamo giovani musicisti che ruppero musicalmente con i codici del passato per creare delle novità.
In sintesi i protagonisti del feeling, che erano quasi tutti chitarristi, parlavano un linguaggio più vitale, immune da retorica romantica ( con alcune eccezioni), fuori dagli schemi della musica commerciale, un qualcosa lontanamente di simile alla linea dei compositori del bebop. E’ corretto? E quali sono stati i tuoi chitarristi preferiti?
Anch’io la penso così. Beh, erano molti i chitarristi che ammiravo: George Benson, John McLaughlin, Baden Powell, Barney Kessel o Oscar Castro-Neves, che stravedeva per Antonio Carlos Jobim.
Se dici Oscar Castro, parliamo di un grandissimo talento entrato nella storia della musica brasiliana: è l’autore di Não faz assim, una delle prime canzoni della bossa nova e con Chora tua tristeza, diventò notissimo grazie alle innumerevoli incisioni negli USA. Inoltre Oscar, assieme ai suoi tre fratelli, formò nella seconda metà del Cinquanta l’American Jazz Combo. Chiudiamo la parentesi e torniamo a Cuba: quali sono stati i tuoi maestri cubani preferiti delle corde pizzicate?
Certamente Carlos Emilio Morales (discepolo di Jesús Ortega), Leo Brouwer, compositore e strumentista di grande originalità e virtuosismo che si è imposto a livello internazionale nel mondo chitarristico contemporaneo e tra i suoi grandi meriti quello di aver saputo intrecciare le forme musicali «popolari» e quelle «colte». Poi, naturalmente, il maestro Nicola.
E’ bene chiarire per non fare confusione: Noel o Isaac Nicola, il maggior propulsore di varie generazioni di chitarristi a Cuba, figura suprema nello sviluppo della tecnica e del repertorio chitarristico?
E’ vero, non bisogna scambiare il chitarrista Noel con suo padre Isaac, che non ha rivali ed è considerato a mio avviso il caposcuola della chitarra cubana. Isaac viaggiò e studiò molto in Europa completando i suoi studi con Emilio Pujol, apostolo di Francisco Tárrega. E tra le decine di allievi importanti cresciuti con Isaac troviamo Brouwer, Ortega, Sergio Vitier e…
…E anche lo stupefacente concertista Joaquín Clerch Díaz. Inoltre direi che sono passati da Isaac anche alcuni chitarristi del movimento culturale, senza precedenti nella storia della musica cubana, chiamato Nueva Trova (NT), è così? Tra l’altro si racconta che tu sei stato uno dei fondatori di quel primo gruppo di NT e che hai rappresentato l’anello di congiunzione tra due generazioni di trovatori: quella dei muchachos del feeling e quella dei chitarristi-poeti della NT. Secondo una penna affidabile come Leonardo Acosta, tu eri il più completo dal punto di vista tecnico-armonico di tutti quei giovani artisti (compreso Pablo Milanés) del Movimento che inizialmente fu osteggiato dai burocrati cubani prima di ottenere grande impatto anche in America latina. Tutto vero? Tu mettesti la prima pietra importante di quella comunità artistica dov’era richiesto il requisito di suonare la chitarra?
Direi che nel corso degli anni ho ascoltato molte delle cose che hai appena ben inquadrate, che in gran parte sono vere e che mi fa piacere risentirle ora da chi ha vissuto lontano da quell’ambiente. All’inizio fui tra i fondatori della Nueva Trova, ma le prime pietre le posammo insieme io, Pablo Milanés, Silvio Rodríguez, Noel Nicola, Eduardo Ramos e pochi altri. Poi quando il fenomeno prese piede si allargò nei concetti e si diffuse nel Paese. Beh, certo era basilare saper comporre e suonare la chitarra, ma senza vincoli strettissimi perché non c’erano solo cantanti e trovadores. Il nocciolo, nel senso di origine, nacque in modo spontaneo tra giovani che cercavano di esprimere diverse inquietudini, attraverso nuovi contenuti musicali e messaggi di vario tipo.
Messaggi espressi in modo nuovo, da cronisti anticonformisti, recuperando e facendo rivivere lo spirito di una tradizione vieja, la trova, seppure piena di contraddizioni e incomprensioni. Giusto?.
Esatto, hai centrato il tema. Innanzitutto, dimenticavo di dire, che non so se il mio chitarrismo jazz influenzò Pablo e colleghi come disse Acosta, ma certamente ci fu un buon interscambio. Rispetto alle critiche verso Silvio e altri, bisogna tenere presente che a Cuba c’era una politica molto complessa e vi erano diversi punti di vista sul come fare musica. L’ho già detto, ma lo ripeto: non si potevano ascoltare Beatles, Rolling Stones, Beach Boys tutto quello che sapeva di Yankee. C’è poi chi dubitava della qualità delle composizioni, delle canzoni che raccontavano vicende quotidiane e di costume, ma il messaggio principale della Nueva Trova nei primissimi tempi era eminentemente politico, patriottico, poi cambiò lievemente prendendo una piega più romantica, si lavorava sulla canzone, ai chitarristi si aggiunsero anche gruppi che cantavano e suonavano in modo nuovo. Il mio impegno, ci tengo a dirlo, fu soprattutto di tipo estetico e culturale, poi come hai ricordato è vero che si avvicinarono al movimento molti artisti dell’America latina, e tra l’altro conobbi con orgoglio grandi figure come Daniel Viglietti e Mercedes Sosa.
Parliamo di dischi. A memoria ti ricordo giovanissimo nella copertina con Omara Portuondo sul suo disco «Singles»; come autore in «Y Tal Vez» (Lp di Omara Portuondo, senza data e credits) dei brani Cualquier Dia, El Desierto Y la Lluvia; poi, se non erro, come esecutore anche in album di Pablo Milanés. Quando e con chi hai fatto la tua prima incisione su disco? E tra le tue composizioni, qual è la preferita?
Francamente non mi ricordo bene quando fu e con chi, ma certamente non come leader. Le prime registrazioni importanti le realizzai appunto con Omara Portuondo, anche con diversi brani miei tra cui quelli poc’anzi ricordati. In «Gracias» c’è Cuento para un niño; nel cd dove appaio in copertina con Omara c’é il mio brano En Ir y venir. La composizione preferita? En la orilla del mundo, come ho detto all’inizio di questa chiacchierata. Aggiungo che l’ho registrata in un album di Pablo Milanés con il quale sono andato anche in tour.
A proposito di tour, noi ci conoscemmo proprio in occasione del tour italiano di Omara Portuondo (esplosa poi anni dopo con il Buena Vista Social Club) dove il direttore musicale del gruppo era il pianista Adolfo Pichardo e il repertorio era un mix di son, bolero, guaracha, guajira, rumba, Guantanamera e l’immancabile Hasta Siempre Comandante. Omara l’ho incontrata nuovamente su progetti con Chucho Valdés, Buena Vista, Roberto Fonseca eccetera. Di te non abbiamo più avuto notizie, neanche durante alcuni miei viaggi nel bel mezzo del caotico periodo especial degli anni Novanta. Parlaci un po’ di tutto questo e cosa è successo nel frattempo.
Dopo pochi istanti di questa chiacchierata ho capito dalla voce chi eri e mi sono riapparsi i luoghi in cui presentavi i nostri concerti, organizzavi quelle serate di solidarietà e ci accompagnavi nelle varie situazioni e molto famigliari. Era l’estate del 1985: ci esibimmo a Bologna e provincia, Genova e nella provincia modenese. Mi piace ricordare che, sempre con Omara Portuondo ero venuto nel 1973 a Milano, nel 1976, forse, a Napoli, e credo fossero serate nelle Feste de L’Unità. Per quanto riguarda il periodo especial e dove ero finito, ti aggiorno che nel 1993 me ne andai all’estero appunto per motivi economici e il primo passo fu il Venezuela, rimanendovi cinque anni prima di stabilirmi a Miami con mia moglie con la quale sono sposato da 55 anni. Parentesi: è un caso abbastanza straordinario, non credi? Perché tu che conosci bene Cuba sai della brevissima durata dei matrimoni da queste parti; poi ho un figlio e due nipoti. Quindi da circa trent’anni manco da Cuba, comunque mi sento bene dove vivo adesso, mi guadagno da vivere suonando nei night club, in televisione o in concerti accompagnando dei solisti, ma se capita canto anche come solista. Debbo dire che on ho nostalgie cubane e tra l’altro in questa zona risiedono numerosi jazzisti cubani importanti.
Martìn, cosa rappresenta, dopo tanti anni, la reunion in Colombia con Pablito Milanés nel festival jazz di Barranquilla? Un progetto nuovo o un ripasso di feeling e di Nueva Trova?
Intanto è sempre bello incontrare un amico e grande artista come Pablo. Il repertorio si basa su temi suonati all’inizio degli anni Novanta, tra il 90 e il 92 quando registrammo un disco di bolero e di feeling, stili che entrambi condividiamo come grandi amori e pertanto dialogare su questo canovaccio è ringiovanire.
Nel tuo futuro c’è in vista un progetto di jazz?
Onestamente non mi illudo, nè di fare progetti di jazz ma neppure di ogni genere tenendo conto dell’età che ho; quindi penso che bisogna saper accettare le stagioni e le cose come vengono. Però mi sento attivo, con voglia di fare, studio sempre, ascolto molta musica, mi aggiorno su quanto accade nel settore della musica buona, e amo la letteratura.
Incontri difficoltà per reperire letteratura adatta alla tua disabilità?
Se si può dire, “leggo” molto audiolibri, perché ho la facilità di reperire materiali in questo formato soprattutto in spagnolo, lavori di autori latinoamericani o internazionali che sono stati tradotti. Prima di concludere questa chiacchierata, se mi permetti, ti faccio io una domanda: Mina continua a cantare? Ha abbandonato le scene? Non so più nulla da molti anni di questa affascinante cantante, se è viva o…
L’argomento Mina non è spiegabile in due righe, è una storia complicata. Posso dirti che oltre quarant’anni fa decise di ritirarsi definitivamente dalle scene, ruppe le relazioni con la carta stampata, poi ritornò sotto la veste di opinionista o curando rubriche. Ogni tanto pubblica dischi, vive all’estero, è viva più che mai, ma non appare in pubblico.
Ah, interessante! Mi piacevano un sacco le sue acrobazie vocali, poche cantanti potevano competere con lei, interpretava ritmi di ogni tipo, memorabili poi i duetti, frizzanti, con grandi nomi. Ti ringrazio per avermi aiutato a riscoprirla dopo questo silenzio. Più o meno, anche se su altri livelli, quello che è successo a te sulla mia carriera, ero scomparso dai tuoi monitor e invece siamo qui. Grazie ancora a te per avermi ricontattato e consentito di ripercorrere tanti anni di carriera assieme ai tuoi lettori e agli amici e appassionati di musiche latinoamericane e jazz.
Gian Franco Grilli
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