MARCO PACASSONI: come vibrare la marimba tra fusion, jazz e latin
Gian Franco Grilli intervista Marco Pacassoni, uno dei più apprezzati vibrafonisti-marimbisti italiani in circolazione e che sa spaziare agilmente e trasversalmente tra gli stili della musica moderna con sempre maggiori e autorevoli consensi nel panorama internazionale del jazz contemporaneo. In aprile uscirà «Life» (Giotto Music/Egea Music) il suo ultimo album con due super stelle mondiali del jazz: John Patitucci e Antonio Sánchez.
Virtuosismo, raffinatezza, tecnica eccellente, morbidezza di tocco e suono cristallino caratterizzano Marco Pacassoni, uno dei più apprezzati vibrafonisti-marimbisti italiani in circolazione e che sa spaziare agilmente e trasversalmente tra gli stili della musica moderna con sempre maggiori e autorevoli consensi nel panorama internazionale del jazz contemporaneo. Nato a Fano (PU) nel 1981, Pacassoni è l’unico musicista italiano che a livello discografico vanta un cameo con il geniale e generoso pianista dominicano Michel Camilo a cui si aggiungono prestigiose collaborazioni in ambito jazz, latin e rock con artisti del calibro di John Patitucci, Antonio Sánchez, Alex Acuña, Horacio “El Negro” Hernandez, Steve Smith e John Beck solo per citarne alcuni. Tra un progetto e l’altro si è cimentato anche con un bellissimo tributo a Frank Zappa e alla sua eclettica marimbista Ruth Underwood raccolto in «Frank & Ruth» (Esordisco). Nel mese di marzo 2022 sarà in tour in Italia e Spagna con il suo trio e special guest il formidabile batterista cubano Horacio “El Negro” Hernández. E in aprile è prevista l’uscita di «Life», il suo attesissimo disco in trio con due super stelle mondiali del jazz: John Patitucci e Antonio Sánchez (Giotto Music/Egea Music). Intanto ripercorriamo assieme le fasi principali della carriera dell’artista marchigiano.
Marco, partiamo dal versante latin e in particolare dal prezioso ed esclusivo endorsement che ti regalò qualche tempo fa sulle pagine di “Musica Jazz” il formidabile pianista dominicano Michel Camilo. Per quanto ci è dato sapere, finora sei stato l’unico musicista italiano ad averlo ospite in un progetto discografico: è giusto? Vuoi darci la tua versione di come è nata questa collaborazione?
Verissimo, e quando ho saputo degli elogi di Michel con quelle belle parole che ti raccontò per Musica Jazz posso dirti di essermi emozionato, puoi capire la mia gioia poiché lo ritengo, oltre che una persona meravigliosa, uno dei più importanti pianisti jazz in circolazione e uno dei pilastri del pianismo latin. Michel lo conobbi al Berklee College of Music di Boston dove studiai per alcuni anni ( e laurea con lode) e in particolare perché lui è molto amico di Larry Monroe.
Credo valga la pena dire chi è era Larry?
Giusto. In quel periodo era il direttore dei rapporti internazionali del Berklee, ma anche un brillante educatore, sassofonista e, ancor prima, uno dei fondatori del Berklee College of Music di Boston. Bene, dalle sue mani ricevetti la borsa di studio a Umbria Jazz, inoltre un tipo che ha suonato con Buddy Rich, Dizzy Gillespie, Gary Burton e come educatore ha influenzato Branford Marsalis, Miguel Zenón, Donald Harrison e innumerevoli altri talenti. Detto questo, ricordo che incontrai Camilo a cena nella casa di Larry poiché in quei giorni Michel era guest star della Scuola. Ci tengo a sottolineare questo momento e con affetto poiché a quella cena partecipò anche mio padre. Da quella serata è nata un’amicizia impagabile che risale al 2004, l’anno che terminai gli studi a Boston e rientrai in Italia.
E quell’amicizia dieci anni dopo ha fruttato un importante cameo per la tua carriera ospitando Michel in «Happiness» (Alfa Music, 2014). Con quale criterio e come ti sei mosso per convincere il famosissimo e quotatissimo Camilo? E qual è il tuo rapporto con il latin jazz?
Io mi sono appassionato moltissimo al latin proprio ascoltando Michel Camilo e soprattutto quando alla batteria c’era Horacio «El Negro» Hernández, artista strepitoso con il quale poi ho avuto il piacere di collaborare in qualche concerto con il progetto Italuba. Per quanto riguarda il brano Michel le cose sono nate gradualmente a partire dagli ultimi minuti di quella famosa cena da Larry Monroe: Michel mi salutò invitandomi ad inviargli qualcosa di mio da ascoltare. Gli mandai la demo in tre pezzi (uno dei Yellowjackets, uno di Pat Metheny e…) che avevo fatto per la mia laurea alla Berklee suonando in duo, vibrafono-piano, con un altro studente italiano, Fulvio Ferrari, pianista. Quando poi Michel Camilo venne in Italia per un piano solo, vicino a Pesaro, mi invitò a far parte del concerto come special guest e così maturai l’idea di omaggiarlo con un pezzo, appunto Michel, che inizialmente incisi con il mio quartetto nell’album «Latino Italiano» e poi proposi a Michel di suonarlo in duo per «Happiness». In poco tempo lui organizzò tutta la registrazione live nell’importante Casa Limon Studio di Madrid. Mi sento molto onorato anche perché degli special guest qui da noi non ne fa con nessuno e soprattutto non fa registrazioni extra dai suoi progetti importanti. Onestamente debbo anche dire che non so per quale motivo ci teneva tantissimo a fare questa cosa assieme a me, e per darti la misura della bontà e umiltà di questo grande signore, mi piace sottolineare che fu Michel a presentarmi al direttore artistico Jacky Marti, ex-voce storica della RSI, che scommise su di me, un artista sconosciuto, tanto da finire in cartellone prima di Chucho Valdés all’ Estival Jazz Lugano 2015 ottenendo tra l’altro un tripudio di consensi di fronte a ottomila persone.
Parliamo un po’ del tuo percorso, dei tuoi dischi eterogenei che denotano plurime influenze. In particolare sei cresciuto ascoltando chi e cosa?
Io sono venuto su con i Beatles perché mio padre era un fanatico del gruppo inglese e subito piacque anche me. E per darti la dimensione di questa attrazione, negli ultimi anni sono andato a vedere per tre volte i concerti di Paul Mc Cartney in giro per l’Europa. Ma nel corso degli anni sono stato influenzato da tutto e di più: pop, rock, jazz, fusion, latin, bossa nova eccetera.
E a quanto pare anche da Frank Zappa a cui hai dedicato il disco con una rilettura interessante pensando anche alla sua splendida vibrafonista: è così e om’è nato questo progetto?
Questo lavoro mi è stato commissionato da Pierre Ruiz, produttore del cantautore Bungaro con cui collaboro da circa otto anni. Pierre voleva fare un tributo alla musica di Frank Zappa che è il suo musicista preferito e in particolare al periodo con la storica vibrafonista riccia Ruth Underwood poiché riteneva che i migliori album di Zappa fossero quelli incisi proprio con Ruth. Devo ammettere che io Zappa lo ascoltavo da lontano, ho cominciato a conoscerlo meglio soltanto cinque anni fa dopo quella richiesta, che era anche una sfida per me. E quindi per fare un tributo ad un artista così difficile devi avere una maturità sia tecnica della strumento che artistico musicale. La proposta è arrivata nel momento giusto in quanto mi sentivo pronto per un’avventura di questa portata e sono contento di aver fatto la rivisitazione di quelle musiche poiché stiamo ottenendo moltissime soddisfazioni: basti dire che l’album «Frank & Ruth» (Esordisco) è distribuito in modo massiccio anche negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone, quindi…
Vogliamo aggiungere qualcosa sulla meteora Ruth Underwood che, come hai detto poc’anzi, ha segnato una fase importante nella musica del geniale Zappa?
La sua particolarità è che artisticamente ha sposato solamente Frank Zappa: infatti dopo dieci anni di militanza con la mitica band decise di abbandonare la scena musicale e, tra l’altro, marimba e vibrafono non sono più stati strumenti centrali nei progetti musicali del chitarrista e compositore di Baltimora. Pertanto è stata un’occasione anche per far conoscere a tantissime persone (e tra queste ci sono anch’io) che non conoscevano bene Ruth e il valore che lei ha conferito artisticamente alla band di Frank Zappa e un po’ anche alla musica contemporanea attraverso quella di Zappa. Oltretutto è curiosa questa sua scelta di non suonare più con nessuno nonostante fosse ancora abbastanza giovane. Comunque ho saputo – tramite dei fan di Zappa e degli organizzatori dell’importante festival Zappanale di Amburgo, dove ogni anno si fanno tributi alla musica del geniale Frank – che Ruth, donna molto timida e riservata, indirettamente ha ricevuto e apprezzato molto il nostro disco. Quindi sono felicissimo e ancora di più se penso che il 15 luglio 2022 siamo stati invitati al festival Zappanale per presentare appunto «Frank & Ruth»: in quella rassegna, la più importante al mondo su Zappa, ci dovrebbero essere, tra gli altri, Dweezil Zappa e John McLaughlin.
Parlaci brevemente di alcuni brani che fanno parte del disco su Zappa e che presenterai in Germania.
Oltre alla mia composizione For Ruth e a Stolen Moments di Oliver Nelson gli altri sette pezzi sono di Zappa di cui ho creato nuovi arrangiamenti, ad esempio Blessed relief, Planet of the baritone women (ospite la voce di Petra Magoni), The idiot bastard son, un medley di tre brani raccolto sotto il titolo Sleep, Pink and Black (the napkins suite), la swingante Echidna’s arf e poi uno spazio tutto per me con la marimba per la mia versione di The Black Page.
A proposito di vibrafono e marimba: se non sbaglio i marimbisti sono molto rari rispetto ai vibrafonisti, e non solo in ambito jazz. Pertanto deduco che anche tu sia partito dal vibrafono, più comune e forse meno complicato della marimba, che a mio parere è uno strumento affascinante con quelle lamelle di legno anziché di metallo. Insomma sembrano strumenti uguali ma sono diversi e per tanti motivi, tra cui anche le condizioni ambientali, giusto? Spiegaci un po’ il tuo percorso.
Il discorso che hai toccato è giustissimo e sarebbe interessante approfondirlo ma ci porterebbe lontano. Il mio percorso è partito dalla batteria come è successo a gran parte di percussionisti; quando mi sono iscritto al Conservatorio ho scoperto il vibrafono e da lì ho cercato di sviluppare tutta la mia conoscenza su quei due strumenti perché li vedevo come un collante tra pianoforte e batteria. Decisi in quel modo perché mi sentivo limitato a fare solo il batterista, o il percussionista classico, che per tutta la vita deve per forza fare brani scritti per lui. Inoltre, essendo attratto dalla composizione e per crescere e migliorarmi, presi lezioni dal grande Daniele Di Gregorio a cui devo moltissimo per la passione di questo aspetto musicale. Poi mi consigliarono di andare a studiare alla Berklee di Boston dove conobbi il gigante dello strumento Gary Burton e altri grandi maestri importanti, e tutti costoro mi hanno fatto capire un nuovo punto di vista sul ruolo del percussionista completo, nel senso che volevo sentirmi più musicista con basi armonico-melodiche che solo percussionista. Intendiamoci, anche il percussionista è un musicista. Mi sono applicato molto per perfezionarmi nelle discipline che studiano l’arrangiamento, la composizione, la direzione orchestrale e mi sono specializzato negli strumenti a tastiera in cui ho trovato più libertà espressive e compositive. Infatti questo mi è servito moltissimo perché amo suonare le mie composizioni e questo fatto mi comporta anche nel decidere cosa e quando suonare, nel senso che preferisco realizzare quattro concerti con pezzi miei piuttosto dei dieci o venti che i manager mi propongono con musiche di altri. Io vorrei andare avanti su questa mia strada e finora sono stato premiato perché suoniamo e, cosa importante per me, è che i miei brani rimangono in testa al pubblico dei nostri concerti dove marimba e vibrafono hanno un buon impatto sul pubblico per il semplice fatto che li conoscono meno degli altri strumenti più noti.
Vado a braccio, i grandi protagonisti di questo strumento nella storia jazz oltre al già citato Gary Burton, sono Bobby Hutcherson, Milt Jackson e Lionel Hampton. E se restringiamo il campo mettendo il riflettore sul latin jazz, i riferimenti importanti sono Cal Tjader, Dave Samuels e Victor Mendoza. Sei d’accordo?
Concordo pienamente: Cal Tjader è la tradizione, uno dei primi vibrafonisti latineggianti; Mendoza poi è stato uno dei miei primi insegnanti al Berklee e siamo diventati molto amici, ci sentiamo ancora, e ha la cattedra del Berklee di Valencia. Con Dave Samuels (1948-2019) non ho mai studiato profondamente, ma fatto solo qualche masterclass al Berklee, perché quando arrivai a Boston mi affezionai totalmente al sound e all’insegnamento di Ed Saindon e Gary Burton e feci tutto il percorso con loro. A proposito di Samuels, mi piace segnalare che in occasione di una serie di masterclass che ho tenuto negli Stati Uniti un paio di anni fa, sono stato ospite speciale al “Dave Samuels tribute concert” per far rivivere per una sera l’immenso vibrafonista (che era scomparso da poco), suonando le sue composizioni presso la University of Texas di San Antonio. Tra gli altri bravissimi rappresentanti di questi strumenti possiamo citare Mike Mainieri che dal lato fusion e contemporary jazz forse è stato uno dei più grandi maestri. Io ho la fortuna di vivere a Fano (dove sono nato nel 1981), una città che ha un festival jazz molto importante e qui fin da piccolo li ho visti tutti quei grandi mostri su quel palcoscenico. Ricordo ancora, come fosse ieri, un fantastico tributo collettivo al vibrafono di Milt Jackson, Gary Burton e Daniele Di Gregorio: ma dopo tre pezzi dissi a mio padre di portarmi a casa non potendone più di quella musica. Ma sai, avevo soltanto sei anni e quindi comprensibile, però adesso pagherei oro per rivedere assieme quei tre incredibili vibrafonisti.
Il tuo percussionismo si è sviluppato soprattutto su vibrafono e marimba: hai mai avuto interessi su percussioni alternative come steeldrums di Trinidad con sonorità decisamente dolci e intense?
Sono sempre stato abbastanza lontano da quei tamburi di latta anche per il fatto che non li ho mai avuti e non risultano essere di facile reperimento dalle nostre parti; sono tamburi un po’ differenti, comunque mi piace quel sound caraibico, l’impasto di quelle steelband, ma ho preferito focalizzarmi su vibrafono e marimba.
Parliamo di altre tue produzioni discografiche prima del viaggio zappiano: «Grazie» (2017) mi sembra il più jazzistico (emotivamente coinvolgente l’ibrida ballad One Day, e anche per il bellissimo intervento di Amik Guerra alla tromba oltre al chitarrismo “aflamencado”) rispetto sia a «Finally» (2011), sia a «Happiness» (2014), entrambi molto più trasversali ai generi.
Certamente è così, perché «Grazie» rivela una maturità più netta rivolta al jazz e per me è un disco molto importante e di enorme significato trattandosi di un ringraziamento fatto a mio babbo, geometra e musicista amatoriale, che era morto qualche mese prima della registrazione dell’album. Essendo venuto a mancare per una grave malattia ho voluto dedicargli questo lavoro con l’unica cosa che so fare, e spero abbastanza bene, che è la mia musica, raccogliendo un po’ tutto quello che avevo realizzato negli ultimi anni. Lì ci sono le influenze del jazz contemporaneo, e anche mainstream come può essere Freedom, uno dei dieci brani. One Day (We’ll Play It Together) è proprio il brano dedicato a mio babbo e dove oltre al bravissimo Amik spicca anche lo spirito flamenco nelle corde di Riccardo Bertozzini di Pesaro. Siccome mio padre era chitarrista, ho voluto omaggiarlo con questo binomio chitarra- marimba, il tutto un po’ melodico e latineggiante pensando alla bossanova e al bolero. E un giorno io e mio padre assieme lo suoneremo da qualche parte.
Siamo partiti dal latin e torniamoci su un attimo. Quando ti cimenti con il latin, per te il giro ritmico armonico del montuno è un riferimento importante?
Sicuramente sui dischi fatti con i miei primi gruppi, come Partido Latino, ho latineggiato di più, l’uso della clave è fondamentale e di questo concetto ne ho acquisito maggior conoscenza quando Horacio «El Negro» Hernández suonava con Michel Camilo. Inoltre ho avuto la fortuna di suonare anche con il leggendario percussionista peruviano Alex Acuña, il già citato cubano Amik Guerra e altri latinoamericani: tutte queste esperienze mi hanno aiutato e aperto nuovi orizzonti. Montuno? Ho cercato di assimilarlo e l’ho espresso in brani dei progetti con il gruppo Partido Latino, che è il nome con cui è nato il mio primo quartetto, forse 2006 o 2007. Con quel nome incisi «Dancing» e anche «Latino-Italiano». Qui oltre agli ospiti Alex Acuña e Amik Guerra ero in compagnia del mio fedelissimo pianista Enzo Bocciero, di Lorenzo De Angeli al basso e Matteo Pantaleoni alla batteria.
In «Frank & Ruth», ora che ci penso, ho ascoltato un chitarrista di notevole talento, vuoi parlarne un attimo?
Sì, è Alberto Lombardi, un grande virtuoso della seicorde, e in quel progetto si è occupato anche della produzione artistica, del missaggio del master. Per una rivisitazione, rilettura di Frank Zappa non poteva mancare una chitarra talentuosa come la sua. Alberto ha dato belle sfumature di prog rock rispetto al sound generale più jazzistico che avremmo ottenuto soltanto con il vibrafono.
Continuerai a indagare la complessità del mondo di Frank Zappa o hai in cantiere altri progetti e sul quale genere ti vorresti cimentare?
Frank Zappa è stata un parentesi bella e utilissima, però tra poche settimane, esattamente in aprile uscirà il mio nuovissimo e importantissimo disco con mie musiche originali e di mia produzione. Un lavoro straordinario in trio con due special guest come John Patitucci e Antonio Sanchez e intitolato «LIFE» (Giotto Music/Egea Music), un disco con il quale realizzo il mio grande sogno di suonare con due dei miei miti musicali. Se vogliamo definire il genere di questo album direi contemporary music dove sono protagonisti la melodia mediterranea e i miei bellissimi strumenti, vibrafono e marimba, creando con essi un sound unico.
Tournée in vista a breve?
A marzo, quindi tra un paio di settimane, sarò in tour in Italia e in Spagna con il formidabile batterista cubano Horacio «El Negro» Hernández e il mio bassista Lorenzo De Angeli. Per maggiori dettagli e aggiornamenti consiglio di consultare la mia pagina web (http://www.marcopacassoni.com/tour-dates.html). Con questo tour voglio onorare i 100 anni di vita del vibrafono, uno strumento immenso, cui renderemo omaggio attraverso i grandi standards latin jazz e brani originali di mia composizione.
Come definiresti il grande filone tua musica?
Mi piace chiamarla contemporary jazz, un po’ alla Steps Ahead, alla Pat Metheny, un misto di quelle influenze che per alcuni aspetti mi hanno sempre attratto e contraddistinto, e che rielaboro alla mia maniera con il vibrafono e la marimba. Non mi sento un jazzista puro, ma una sorta di chitarrista che si esprime con il vibrafono e la marimba attraverso la melodia.
E, per concludere, l’improvvisazione che ruolo ha avuto nella tua formazione, e che spazio occupa nella tua musica e nel tuo linguaggio?
L’improvvisazione va studiata e io ho fatto un percorso importante di armonia jazz sia in Italia che alla Berklee perché credo che senza quegli studi non si va molto lontano creativamente. Tra l’altro ho scritto anche un “manuale di composizione e improvvisazione”, poi continuo a fare delle ricerche e sono molto attivo su questo terreno. Naturalmente più conoscenze acquisisci e maggiori saranno le possibilità di creare cose interessanti durante l’improvvisazione. Inoltre, a mio avviso, quando improvvisi con altri, molto dipende dalla maturità di ciascuno, ma importante è capirsi e ascoltarsi per poi interagire, per creare un buon interplay. Tuttavia bisogna pensare anche a chi sta ascoltandoti e non soltanto essere concentrati su noi stessi per far capire e arrivare al pubblico la musica che stiamo creando e creare nuova interazione.
Gian Franco Grilli