In Qui solo per poco esplori le vite di esseri viventi non-umani, come uccelli, insetti, porcospini e cani. Come è nato il tuo interesse per la rappresentazione del mondo animale attraverso la letteratura?
I modi in cui gli animali non umani sono partecipi della storia del mondo, delle dimensioni dello spazio e del tempo che ci trascendono e di quelle che invece stabiliamo noi umani è un argomento che mi ossessiona da tempo. Il mio interesse per le migrazioni degli uccelli e per come attraversano il territorio è nato più di dieci anni fa ed è stato uno dei motori per la scrittura di questo libro. Qui solo per poco è un romanzo che parla di cagne, uccelli migratori e altri animali che deviano la loro rotta e cambiano dimora, dei viaggi a cui li sottoponiamo o di quelli che gli animali intraprendono volontariamente. È anche un tentativo di pensare a cosa significa perdere una casa e trovare un nuovo posto dove stare, riflessioni che sono legate alla mia migrazione, ai miei andirivieni, da adulta, tra la Colombia e gli Stati Uniti. Quando ho iniziato a scrivere questo libro avevo appena perso un luogo che era sempre stato al centro dei miei pellegrinaggi, un terreno nell’altipiano cundiboyacense [nella Cordigliera Orientale della Ande, n.d.t.], dove ho passato la maggior parte dell’infanzia e dove sono sempre tornata per pensare e riprendere fiato. In quel momento ho dovuto riflettere in modo approfondito su cosa significa errare e sulla natura transitoria di qualunque idea che abbiamo di casa. Immaginare come gli animali vivono il cambiare dimora (che molte volte è causato da noi umani), cosa può significare “casa” per loro e come il loro abitare complica le nostre nozioni di proprietà e appartenenza, è stato il modo più lucido che ho trovato per affrontare questi argomenti. In ognuna di queste riflessioni è implicita la domanda rispetto a quali animali costringiamo a spostarsi e a quali permettiamo di rimanere. In altre parole, la domanda politica su chi sia l’ospite e chi l’anfitrione.
Perché hai scelto proprio questi animali come protagonisti del libro? Sono animali che hanno avuto un ruolo particolare nella tua vita?
Dopo aver vissuto tutta la vita con dei cani volevo indagare quei legami di ammirazione e ospitalità che creiamo con loro, ma anche tutto quello che gli chiediamo, la compagnia così asimmetrica che ci supplichiamo a vicenda, le fantasie di controllo che proiettiamo su di loro, il modo in cui li manipoliamo e, a volte, li abbandoniamo. Fin da piccola ho ammirato i cani randagi di Bogotà, così sovrani e coraggiosi, ed era da tempo che volevo riflettere sul loro ruolo di testimoni della vita pubblica. La lettura de Il dialogo dei cani di Cervantes, dove due cani randagi una notte si trovano a interrogarsi sul mondo umano, è stata la mia ispirazione per narrare la relazione tra due cagne a Bogotà che non hanno quello che di solito consideriamo una casa.
Ma forse l’episodio che più di tutti mi ha spinto a scrivere il romanzo è stato quando 15 anni fa trovai un uccello dai colori molto accesi stordito sul balcone dell’appartamento di Bogotà dove stavo vivendo. Facendo qualche ricerca scoprii che arrivava dal nord-est degli Stati Uniti, che era lo stesso posto da cui arrivavo io. Quella visita così strana di un uccello che normalmente preferisce gli alberi risvegliò in me un’enorme curiosità per i viaggi emisferici di alcuni volatili. Da quel momento non ho più smesso di indagare su di loro e di cercarli nei boschi in Colombia e negli Stati Uniti. Alla fine, ho deciso di narrare il loro eroismo di cielo e altitudini. Ma ho voluto parlare anche dei viaggi di quegli animali che alle persone di città risultano più estranei perché non possono essere considerati “da compagnia”. Negli ultimi anni ho passato molto tempo nei boschi di nebbia di Boyacá dove abitano, tra molti altri animali, porcospini che sono quasi estinti nel resto della Colombia perché questo paese ha disboscato la maggior parte delle sue foreste. Il porcospino del romanzo prende ispirazione da una storia che ho vissuto da vicino mentre scrivevo quelle degli altri animali e che mi ha fatto riflettere sulla cura tra specie diverse e sulla tensione tra l’addomesticamento e la vita nella foresta.
Nella tradizione letteraria troviamo molti esempi di animali che personificano comportamenti, vizi e valori umani per farci riflettere sulla nostra natura. ”Qui solo per poco” invece sembra andare in un’altra direzione, cercando di resistere alla tentazione di umanizzare il non-umano e di ridurre la complessità di modi di vivere e sentire a noi estranei. Come hai affrontato la sfida – e la contraddizione – di rappresentare delle soggettività altre a cui non avremo mai completamente accesso?
Effettivamente ho preso la decisione opposta. La mia preoccupazione è sempre stata come avvicinarmi agli animali non umani, alle loro vite segnate dalle nostre, senza cadere nella trappola semplicistica di dar loro una voce. Non perché gliene manchi una (ovviamente ce l’hanno, ma la loro comunicazione è diversa da quello che siamo soliti concepire come linguaggio), ma perché ritengo che ci sia un problema etico nell’assumere che le loro emozioni, il loro modo di pensare, ascoltare, odorare e vedere il mondo possano essere espressi completamente attraverso i nostri parametri. Non è che non si debba concettualizzare l’esistenza degli animali – è urgente farci domande sulla loro esperienza –, ma se vogliamo scrivere la storia da un punto di vista che comprenda anche altro oltre a ciò che è umano dobbiamo evitare l’impulso violento di proiettare dei significati sull’animale, equiparare le loro emozioni alle nostre o classificarle come inferiori. Rispettare la loro sovranità vuol dire accettare che l’animale non umano è partecipe del mondo da altre sponde, altitudini e superfici, da ontologie spaziali, temporali, soniche e visuali proprie che sono diverse dalle nostre, anche se si incrociano. Per me questo implicava allontanarmi da un’eredità filosofica e scientifica dominante nella tradizione occidentale che ha sostenuto che gli animali non hanno emozioni o pensieri complessi, o che si rifiuta di farsi queste domande. E anche se la letteratura è stata per secoli uno spazio centrale per mettere in discussione le idee dominanti sulla superiorità di ciò che è umano, volevo anche allontanarmi da una tradizione che dà agli animali una funzione meramente simbolica. La mia sfida è stata avvicinarmi il più possibile alla comprensione dell’animale, affrontarlo come una persona non umana, con una personalità che non è riducibile ai nostri parametri, e allo stesso tempo riconoscere i limiti di questo avvicinamento.
Ho ideato la narratrice come una compagna che viaggia con gli animali, ma non come una benefattrice, né come un essere superiore o un parassita. Piuttosto come qualcuno che chiede loro un passaggio per essere testimone, pur con la sua limitata conoscenza umana, di come si muovono e attraversano un mondo che molte società umane insistono a considerare come un luogo esclusivamente proprio. Quando la narratrice si interroga sulle emozioni e i pensieri che potrebbero avere gli animali, spiega sempre che non potrà mai decifrarli del tutto. Mi è sembrato che l’allusione esplicita a questa curiosità nei confronti di chi sono gli animali, insieme al riconoscimento della loro alterità, fosse un modo per evitare di antropomorfizzarli o trasformarli in una metafora o allegoria di qualcos’altro. È un modo di mettere in discussione anche l’idea di una superiorità intellettuale umana che è alla base delle fantasie di supremazia sugli animali. Donna Haraway dice che uno dei nostri doveri come persone che condividono il mondo con altri esseri è essere curiosi di cosa fanno, sentono, pensano, di come i loro sguardi si incrociano con i nostri. Possiamo ritrovarci con gli esseri non umani e ripensarci, decentrando allo stesso tempo la nostra razionalità? Questo è stato uno dei miei grandi interessi narrativi. |